"CELIA"



"C E L I A"
 di 
A n t o n i o   V e n e z i  a n o 
Salvatore Giaconia - Ritratto di Antonio Veneziano 

Lingua e stile nei versi del poeta dell' Amore

a cura di Salvatore Autovino


Antonio Veneziano è il poeta dell'Amore. I versi dei suoi componimenti costituiscono le pagine più belle della poesia in vernacolo siciliano del Cinquecento. Considerato il "grande" della letteratura siciliana di quel secolo, ben presto fu ritenuto il caposcuola della corrente petrarchista. Spirito versatile e dotto, avido di sapere, l'illustre monrealese diede origine ad una nuova poesia che ben presto lo rese famoso ed a cui si ispirarono diversi siculi poeti. In una lirica nuova per stile il Veneziano cantò il suo amore per Celia, donna misteriosa e affascinante che egli amò perdutamente. Nelle ottave, nelle canzoni d'amore a lei dedicate, dando sfogo ai suoi sentimenti, osannò la sua bellezza e la sua maestosità. La produzione poetica del Veneziano si identifica con una delle voci che parlano il nostro dialetto re diventa quasi il simbolo stesso della poesia siciliana. Egli fu uno dei più raffinati poeti di quel secolo e fu un accanito sostenitore della nostra lingua. Rifacendosi al greco Omero, al latino Orazio, al toscano Petrarca che scrissero le loro opere nella propria  lingua, il Veneziano, fortemente attaccato alla sua terra, nella lingua madre ci ha tramandato le sue belle composizioni in un forbito siciliano tratto dalla bocca del popolo e ripulito di ogni scoria volgare e plebea. Ecco perchè i suoi canti d'amore, proverbi, intermezzi, epigrammi, composizioni burlesche, in lingua siciliana, lo hanno reso famoso e gli hanno conferito un posto di primo piano nella nostra letteratura.
Le sue rime, ricche di originali antitesi, di giochi di parole espressi con leggiadria e naturalezza esprimono i suoi variabili stati d'animo in cui vengono messi in risalto la bellezza della sua donna, la speranza, il timore, la disperazione. In un continuo contrasto tra amore e dolore, tra ideale e reale, il poeta è riuscito a emulare lo stile e la maniera del Petrarca, per cui non a torto è stato appellato il "Siculo Petrarca". I componimenti poetici del Veneziano attestano la profonda e vasta penetrazione del petrarchismo nell'isola. Nell'escavazione di tematiche universali - amore, sdegno, gelosia - il tutto ruota solamente ed esclusivamente intorno all'autore. l a vertiginosa macchina linguistica e teatrale della Celia, il suo capolavoro, costituisce un'invenzione letteraria di così grande rilevanza culturale da permeare ogni altro testo poetico della Sicilia di quel tempo. Per la rappresentazione della grazia femminile il poeta utilizza il canone breve adottato dalla lirica alta e celebra una donna ideale, forse non mai esistita. dai versi trapela uno spasmodico desiderio della donna che ama, una struggente passione che ammalia e lo esalta. Celia è una donna non comune, non solo per bellezza, ma anche per virtù: 




Fui prisu in riguardari la grandizza
di vostra divinissima figura: 
l'eburnea frunti, la deorata trizza,
la vucca cinta d'impernati mura; 
l'occhi, und'amuri cu li Grazii 
sgrizza e spira grazii e amuri a cui v'adura.
Vui siti, donna, specchiu di bellizza,
miraculu di Diu, d'arti e natura.

Egli desidera Celia bramosamente, ma per il ceto cui essa appartiene, gli è impossibile frequentarla per manifestarle il suo amore. Il Poeta la osanna come la divina, la suprema, l'irraggiungibile, la bella in assoluto, esortandola a contraccambiare il suo amore e ad alleviare le sue sofferenze. Preso dalla passione e dal desiderio di averla tutta per sè, dalle rime traspare il suo stato d'animo, ora felice, ora tormentato a volte per gelosia, a volte ritenedo di non essere corrisposto. Spesso, in preda alle proprie riflessioni e alle proprie fantasticherie, non sa se morire per amore o vivere per amare una donna di alta classe, nobile, eccelsa.



La notti in sonnu, durmendu, t'abbrazzu;
criu abbrazzari a tia e abbrazzu lu ventu; 
o chi gran chiantu e gran lamentu fazzu, 
o chi gran pena a lu miu cori sentu! 
Poi mi risbigghiu, la nfingiu e la sfrazzu 
Forsi vigghiandu, passai lu stentu; 
ma non mi servi, su impintu a lu lazzu; 
dorma o non dorma, vigghia lu turmentu. 

Abbagliato dalla luminosità di cotanta bellezza, dalla divina figura di Celia dai dorati capelli, dal roseo colore della pelle, dalla bocca desiderosa di baci, dagli occhi che sprizzano amore, il Veneziano vede in Lei, un'opera d'arte creata miracolosamente da Dio. L'Amore è per il poeta il suo motivo ispiratore. Il forte fuoco che gli brucia dentro diventa sempre più grande e dappertutto egli vede l'immagine di questa donna celestiale che lo brucia per il suo splendore.



Si lu focu chi m'ardi, dintra e fori, 
veni causatu di cui portu amuri, 
non mi giova rimediu, nè paroli, 
la vampa avanza e non manca l'arduri. 
Dunca, non servi lu chiantu a cui mori, 
invanu, occhi, chiangiti tutti l'huri, 
chi si vuliti aiutari lu cori, 
ci vol'autru chi chiantu, alli duluri



nei versi, il vero protagonista è il cuore del poeta con i suoi sogni, le sue speranze, le sue illusioni. In essi è esplicita una passione amorosa in cui egli sente il bisogno di abbandonarsi al fascino della bellezza. Nei momenti più lirici, più felici, si lascia andare al canto con la gioia di chi rinviene la voce più armoniosa dello spirito. Il poeta avverte la necessità di piegarsi ai moti del cuore per osannare la compagna di ogni dolce immaginazione. "Senza un grande amore, non c'è poeta; dove è un grande amore non può mancare un grande dolore". Ed è proprio in questo detto che si configura lo stato d'animo del poeta alla luce delle segrete movenze sentimentali e che geme per un forte sentimento non corrisposto.
La musa del Veneziano è quel particolare sentimento dolce, e talvolta amaro, per il quale il suo animo trova la voluttà di gioire, di soffrire o di piangere. Nelle Ottave diffuso è il bisogno di affetto, di sentirsi amato, di abbandonare l'anima ad una morbida e carezzevole musica, alla sottile dolcezza dei sensi. La contemplazione della bellezza femminile è rappresentata in un'atmosfera di gentile ed aristocratica grazia. Il Veneziano, nella sua poesia, propugnò il ritorno alla più pura imitazione formale del Petrarca. Rifacendosi al cantore di Laura, egli venne incontro al bisogno di rinvenire nella poesia dialettale l'idea di  eleganza, di moderazione stilistica, di limpidità formale. Il suo è un canto vero, un canto vibrato, oscillante, che ha i suoi chiaroscuri. A volte è sereno, a volte si annuvola, in altri momenti si bea, desidera, prega, impreca, si sdegna, si pente, per tornare a pregare. Ma il canto del poeta è uno: è il cuore del cantore. Lo stile della Celia e di ogni altra composizione poetica del Veneziano è puramente classico; è grave, abbondante, scultoreo, sentimentale e un pò troppo carico di erudizione.La classicità dei componimenti del Veneziano è una naturale conseguenza dei suoi studi effettuati sopra i classici greci e latini. la donna amata è celeste e terrena, è una figura rivolta alla sensualità greca, come alla classicità latina e dalla quale traspare un dettato flebile, lusinghiero e mordace adagiato nell'ammirazione delle donne per poi aprirsi al gusto strettamente dialogico con una compresenza di lezioni letterarie e poetiche. 
Ma chi è Celia? Chi è questa donna bellissima che lo ha infatuato? C'è da dire che il Veneziano, nella sua vita movimentata, ebbe ed amò diverse donne. Per loro scrisse diversi componimenti, ma mai si è riusciti a svelare la vera identità di Celia. Gli studiosi che si sono cimentati per risolvere l'enigma non sono riusciti a dare una vera soluzione. Molti hanno visto in Celia la nobile donna Felicia Orsini, moglie del vicerè Marco Colonna, venuto in Sicilia nel 1577, grande mecenate per pittori, poeti, e lo stesso Veneziano godette della sua magnanimità ed è quindi plausibile pensare che a corte il Veneziano si sia invaghito della nobil donna. Essendo Felicia sposata ed appartenete a nobile casta è da supporre che il Veneziano abbia "celato" la vera identità della donna amata per ovvie ragioni. Oggi, a distanza di secoli, sai potrebbero avanzare tre ipotesi, per dare una spiegazione a tale mistero. 
Una prima ipotesi assurda farebbe pensare che il Veneziano, omettendo la lettera "F" e la vocale "i" al nome di Felicia, abbia anagrammato la parola "elica" pervenendo così a Celia.
Una seconda ipotesi porterebbe a considerare che il poeta abbia voluto effettuare una sincope sul nome Cecilia eliminando la sillaba "ci" per arrivare a Celia. 
Una terza ipotesi, forse ancora più assurda, potrebbe essere quella che il Veneziano, proprio per "celare" e quindi nascondere il nome della sua amata, l'abbia appellata Celia per non rivelare la sua vera identità. Qualunque sia  l'interpretazione che ognuno voglia dare alle predette ipotesi, resta il fatto che nella sua opera il poeta monrealese ha lasciato ai posteri uno splendido capolavoro letterario. La sua struggente passione d'amore, i suoi impulsi, i suoi sospiri diventano liriche composizioni in cui l'amore ardentemente desiderato, ma non corrisposto è decantato in ogni forma di sentimento e devozione. Se nei versi esiste una profonda differenza di stile e di tematica, è pur vero che in essi a trionfare è sempre l'Amore. la caratteristica vena poetica fa intravedere il suo pensiero e i suoi versi ci presentano i suoi sentimenti genuini e sinceri. Creatore e casellatore di componimenti talvolta ricchi di doppi sensi, il poeta, quasi in una continua altalena esprime la crescente intensità dell'amore che arde nel suo cuore, fino a consumarlo totalmente. Celia vive la sua realtà di donna con la sua bellezza, la sua sensualità. Ella si distacca dalla Beatrice di Dante, simbolo del Dolce Stil Novo, e dalla Laura del Petrarca simbolo della perfetta beatitudine. Celia sa essere donna passionale, capace di far vivere il poeta nell'immaginazione e nel sogno. Anelante e desideroso di una amore che realmente non ha potuto ottenere, il Veneziano, innamorato pazzo, patisce le pene dell'inferno, ma sa elevarsi con la sua anima a raggiungere un sublime lirismo. L'amore è, e resterà, sempre il grande motivo ispiratore delle sue opere. Paragonandosi ad un povero mendicante affamato va elemosinando qualche goccia d'amore. Ed è proprio nel chiedere amore che egli diventa contemporaneamente protagonista e maestro. Bellezza e Grazia  costituiscono il filo aureo della poesia del Veneziano. L'esattezza del linguaggio, la salda impostazione dei componimenti, la compattezza ed eleganza della struttura, fanno di questo illustre monrealese un grande cantore dell'Amore anche quando, alla fine, stanco e consumato dalle pene e dalle delusioni si accinge a cantare, come il cigno morente, l'ultimo canto.
I suoi sospiri, i suoi lamenti sono stati affidati e riportati a noi in altri due celebri componimenti: la Nenia e l'Agonia.




"O fortunati cigni,
poich'murennu morinu cantannu,
nui chi vurriamu tannu
mustrari ultimi affetti, ultimi signi, 
a lu mugghi 'nni manca 
l'afflitta carni travagghiata e stanca." 



L'Amore, e le difficoltà che gli provoca, è il tema dominante del protagonista. Persino nella composizione "Su poviru affamatu pellegrinu" il cnto velato da una ingenua semplicità, un pò alla volta diventa passionale ed erotico, pregno di passioni amorose e ricco di sensualità. Adagiato nell'ammirazione della donna, quest'uomo così contraddittorio e incline ai piaceri del sesso, fa emergere la qualità e le immagini degli affetti del cuore umano in virtù della sua vigorìa fantastica. La poesia del veneziano è nitida ed emerge dalla sua maturità umana e poetica e dalle immagini fissate con gagliardia, sicurezza e commossa intensità. per l'uso raffinato della parola, per la scelta dei temi, per gli esiti stilistici, la trasfigurazione poetica di tanti motivi ispiratori svela una realtà che soggiace al sentimento del tempo e all'amore del poeta per la sua Sicilia. Le liriche del poeta sono dettate da un'ispirazione calda e impetuosa che si traduce in immagini dense di significati in cui appaiono l'eco del mito, la voce del passato e l'essenza della passionalità isolana. Lo stile della poesia del Veneziano è inconfondibile anche nei suoi tradizionali Proverbi. Stigma della cultura orale del popolo, sono stati ideati dal poeta per fissare a futura memoria espressione di verità e di vita. In essi, il poeta, esterna una vera morale filosofica. La vera amicizia e il vero amore vengono dimostrati nei momenti difficili di bisogno e di avversità:




La petra, chi dimustra li carati 
di l'amicizia e di l'amuri anticu, 
è a lu bisognu ed a l'avversitati, 
ed iu pirchì lu provu vi lu dicu. 
Ddà si prova la fidi e la buntati, 
ddà di l'amici si fa lu lambicu; 
carzari, malatij, nicissitati 
scumbogghianu lu cori di l'amicu. 




La poesia del Veneziano abbraccia tutta quanta la complessità della vita umana e i versi rivelano un'autentica e forte sensibilità espressiva il cui filo conduttore è legato dalla seduzione della sicilianità. La sua stessa lingua, come per miracolo, è ferma e decisa, immune dal tempo. Con il suo acume di critico ha propugnato il dialetto siciliano e i suoi scritti si identificano con una delle voci che diviene respiro di determinati sensi che rappresentano il simbolo stesso della poesia siciliana. Con il suo carattere avventuroso, impulsivo e mordace, ironico e burlesco, seppe esternare l'intimo del suo animo nella poesia e tutto il modo di fare della sua vita è racchiuso nei versi: 




Unu su dintra e n'autru paru fori, 
su tuttu mestu e mostrumi serenu, 
a vacca ridi e chiancimi lu cori.




Quella del Veneziano è un'arte delicata, è poesia soave, emotiva, genuina, espressa a volte con dolcezza a volte con asprezza. Ne scaturisce una sorta di paesaggio dell'animo in cui i dettagli dell'esistenza del poeta sono attraversati dalla ricerca della verità, dalla speranza, da un percorso che entra nel cuore del lettore. La sfaccettature della sua poesia sono un susseguirsi di tracciati di presente e passato della vita dell'artista capaci di formare il dalogo animato e interessante, come si evince dal contrasto di seguito riportato:




Cori chianci, pirchì? Pirchì su amanti, 
di cui? D'una spietata e sconoscenti
t'ama? Nun m'ama, e di suspiri e chianti 
mi pasci ogn'ura l'affannata menti. 
L'amasti? Iu l'amai firmu e custanti; 
fusti pagatu? Si, di peni e di stenti. 
Dimmi in premiu, chi avisti? Amari chianti. 
e l'ami? L'amu. E chi nni speri? Nenti!  




Amico del Cervantes con il quale condivise parte della vita per la prigionia in Algeri, ebbe con lui, uno stretto legame di amicizia e un rapporto poetico tale da confidargli il suo grande segreto: il suo amore per Celia. I due, compagni di avventura, poeticamente ispirati e uniti da motivi d'amore e di bellezza, a livello stilistico, hanno in comune numerose affinità e intensificano le somiglianze sia nelle figure retoriche che nelle metafore. Il Veneziano ama celia come il Cervantes ama la sua Galatea. I frutti dell'ingegno dell'autore spagnolo si riflettono, nel suo Don Chisciotte, per l'amore intenso che nutre verso la sua spada, la bella Dulcinea del Toboso, salita al rango di principessa, anzi regina, carica di ogni beltà e di chimerica bellezza. Il Cervantes recepì concetti e strutture del monrealese ed è abbastanza chiaro che entrambi rientrano a pieno titolo in quella che definita: "la tradizione petrarchista". Il Veneziano, soprattutto, per la sua espressione letteraria e per la spiccata evoluzione della sua produzione poetica è da considerare uno dei poeti più importanti tra i classici siciliani. la sua poesia può essere rapportata alla sua vita movimentata. Romantico e innamorato, burlesco e satirico, infelice e disperato seppe esternare i propri sentimenti con versi che posseggono una forza espressiva ed inconfondibile, rispecchianti una innata tendenza artistica e una spiccata originalità. Tutta la poesia di questo insigne poeta può sintetizzarsi nelle parole: Amore, Ansia, Piacere, Trepidazione, Fantasia.



dal Catalogo su Antonio Veneziano - "Sulu e ricotu cu li mei pinseri" - vita e opere di Antonio Veneziano Celebrazioni per il 467° anno dalla nascita










DAL LIBRO
LA POESIA DI ANTONIO VENEZIANO
O T T A V E
a cura di
Gaetana Maria Rinaldi

La produzione poetica di Antonio Veneziano è in maggior parte costituita dacanzuni, ottave siciliane in endecasillabi a rima alterna. Secondo il più autorevole manoscritto, che si conserva nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana con la segnatura XI.B.6, 289 ne contiene la Celia, il canzoniere vero e proprio del poeta, 313 il Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani; 42 sono le canzuni di Sdegnu, 33 quelle Spirituali, di argomento devoto, 32 compongono l’Ottava; infine 100 non recano alcun titolo.
Altre opere del poeta, in metro diverso ma sempre in siciliano, sono i due lamenti, Nenia e Agonia e la trilogia burlesca costituita da Puttanismu, Arangeida e Cornaria.
In prosa italiana è il Discorso sopra le statue della fontana pretoria di Palermo, dottismo <commento> in cui il poeta suggerisce l’interpretazione delle statue che adornano la celebre fontana (e che ora può leggersi nell’edizione fornita da S. Iannone, inserita nel saggio di G. La Monica, Pantheon ambiguo, Palermo, 1987, a pp.77-174); in italiano è ancora il brutto sonetto indirizzato a Miguel de Cervantes, che aveva inviato al poeta 12 ottave in castigliano (la corrispondenza poetica è stata pubblicata da M. C. Ruta, nel Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 14, 1980, a pp. 177-185).
A questi scritti di sicura attribuzione si deve aggiungere una cospicua produzione apocrifa, a cominciare dai famosi e godibili Proverbi (anch’essi in ottave siciliane), fino alle centinaia di canzuni che si trovano nelle antologie manoscritte della poesia siciliana del Seicento.
Dalle opere maggiori, Celia, Libru secundu, Sdegnu e Canzuni, in misura decrescente, è tratta la piccola scelta che qui si offre. Il testo delle canzuni, è quello fornito dal manoscritto XI.B.6 già ricordato, con qualche lieve ammodernamento della grafia e con una interpunzione moderna. …
Gaetana Maria Rinaldi

Cu chiddi soi moduzzi sapuriti
mi spiau un ghiornu cui era lu miu dardu.
Guardatimi intra l’occhi e vidiriti
– ci diss’iu – chi ddà pari per cui ardu!
Guardau, si vitti e risi e – chi criditi? –
suggiunsi un tiru chiù beddu e gagghiardu:
<Guarda chi latru gintili chi siti,
chi rubati li genti cu lu sguardu!.
Celia, 19.
***
Di l’occhi toi lu suli potti tantu
chi in lagrimi squagghiau la carni mia,
 si tornava a guardarmi un autru tantu
comu vapuri e l’airu m’attraia.
O, s’iu chicassi mai tant’autu quantu
nevula d’acqua facissi di mia,
non chioggia d’oru, ma chioggia di chiantu
dintra l’amata turri trasiria!
Celia,22.


Oh, si spinta di collera e di stizza
cu li manuzzi toi mi maltrattassi,
ed iu – chi non sia mai! – fussi sulfizza,
 per puru istintu chi ti mozzicassi,
quantu si saziria la tua ferizza
supra di mia, s’a posta tua sburrassi,
e quanta sarria poi la mia allegrizza
chi cu la morti mia ti risanassi!
Celia, 25


O vera e sula bedda, in cui reluci
quant’essiri bellizza mai potissi,
chi cussì puramenti netta e duci
corpu non fora mai chi la capissi,
 in tia in la sua essenzia reluci
e, quando in tuttu da l’autru spirissi,
 tu, comu luci s’adduma di luci,
 lu mundu di bellizza addumirissi.
Celia, 40.


 Suspiru, tu chi nesci di ddu pettu
und’è lu cori miu chiusu e fermatu,
dimmi chi fa, siddu si sta in dilettu,
siddu chiù pensa a lu miu amaru statu!
E quandu torni a l’amatu ricettu,
com’hai a tornari d’airu accumpagnatu,
per fari un gestu ch’a intrambu sia accettu
in compagia ti porta lu miu ciatu!
Celia, 46


Di propia manu st’opra pinsi Amuri
per farsi adurari iddu per diu:
macinau la bellizza, li coluri;
la grazia per pinzeddu ci serviu.
Poi ki cu milli travagghi e suduri
cussì divina immagini compliu,
ndi fu idolatra com’era pitturi
e ci sacrificau lu cori miu.
Celia, 54




L’ura ch’impressu vidiri m’ingegnu
la facci chi si guarda per disiu,
s’altera e turba e cu negghia di sdegnu
muta la bedda forma chi desiu;
ed iu in estasi vaiu e poi in mia vegnu:
s’è idda e s’iu sugn’iu criu e non criu.
Guarda chi gran contrarietati tegnu,
quando la viu chiù mancu la viu.
Celia, 65


La mia disgrazia tua disgrazia fu,
pacenzia undi rimediu non ci po’,
chi, senza aviri ormai speranza chiù,
perdi ognunu di niu l’intentu so.
Sii costanti, ch’iu quali fui su,
né di l’essiri miu mi movirò;
e, comu non pozzu iu n’essiri to.
Celia,71


Supra li noti fermi di lu cori,
stabili e saudu in non mutarsi mai,
fannu li mei penseri varii cori,
contrapuntandu cui pocu e cui assai;
e tu, memoria, a li vuci canori
ci porti lu compassu e cu iddi vai
cantanddu ducimenti sti palori:
sia benedittaa l’ura chi l’amai!
Celia, 73







Cori miu, in celu propia non ci trovi
signu chi di fermizza ndi conorta:
la luna muta formi in vecchi e novi,
lu suli ha la sua strata dritta e torta
e in ogni stidda varii aspetti provi
chi, girandu, lu celu leva e porta.
Chi sarrà di cui amamu? Non si movi?
Uh uh per nui, chi la speranza è morta.
Celia, 76




Cu duci modi mi lighi e ncatini, tal chi li sensi mei non su chiù soi:
fa’ di mia scheltu, ingrata chi mai fini,
o in atomi risolvimi, si pòi!
E si non basti, st’ossa, carni e vini
Risolvili a lu minimu stissu senza fini
Amirà estremu li bellizzi toi.
Celia, 77



Mi formu di tia un’ecu in ogni locu
e parimi ch’iu parlu e tu respundi.
S’iu cantu o chianti pr’esalari un pocu,
sentu li canti e chianti toi profundi;
s’in sugghiuzzi, suspiri e vuci abbundi.
O fintu beni, o travagghiatu iocu,
m’immaginu fruirti e non viu undi.
Celia, 83





O, si per sorti avissi fattu Diu
reciprocu l’amuri fra di nui,
né cori vostru ci fussi né miu,
ma fussimu vui ed iu unu e nun dui.
Cert’è, ch’ancor chi locu ndi spartiu,
la vogghia e lu disiu nd’uniria chiui:
ora iu senza di vui sugnu senz’iu
e vui senza di mia siti iu vui.
Celia, 132


Si li celesti sferi su girati
di li chiù beddi spiriti e chiù puri,
sferi di lu miu celu, ch’avanzati
 chist’autri celi in forza ed in splenduri,
cui vi duna lu motu? Undi spirati
a un giru d’occhi lu divinu arduri?
Ah, chi ben sentu, non mi lu negati,
chi per vui diventau spiritu Amuri!
Celia, 135


Planeta und’hannu iornu l’occhi mei,
cui di l’aspettu to mi fici fori?
O felici tri voti amanti e sei,
ch’avendu a impeiurari primu mori!
Benchì per sorti e vogghia di li dei
Tu sì in Sicilia ed iu in terra di Mori,
t’aduru cu li spirti afflitti e rei:
zo chi non po’ lu corpu fa lu cori.
Celia, 137





Riveni, si recria e si restaura
undi tu appari intornu lu paisi,
l’airu di lu to gratu oduri ciaura,
ciurisci lu  terrenu chi scalpisi.
Di lu to lustru lu suli s’innaura
E lucindi la luna d’ogni misi:
sulu a la mia fortuna per duci aura
mai veni, o per sant’Ermu a lu caucisi.
Celia, 168



S’iu mutai modu, stilu, abitu e forma,
dati la culpa a la nimica mia,
chi mi s’ha fattu so e, vigghia o dorma,
comu un camaleonti mi varia.
Idda è regula mia, idda è mia norma
E cu la vista affettuosa o ria
Mi muta e smuta, mi forma e trasforma,
e quantu voli vali e fa di mia.
Celia, 180



Mi rudu, mi minuzzu, anzi mi stendu,
com’oru per trafilu assuttigghiandu
 e non m’avvinciu mai, né mai mi rendu,
sempri chiù disiusi l’ali spandu.
Timu chi, comu diventau chiangendu
Egeria ciumi e vuci Ecu gridandu,
iu, mentri pensu e pensari pretendu,
non mi risolva in penseri pensandu.
Celia, 186




Fui prisu in risguardari la grandizza
di vostra divinissima figura:
l’eburnea frunti, la deorata trizza,
la vucca cinta d’impernati mura;
l’occhi, und’amuri a cui v’adura.
Vui siti, donna, specchiu di bellizza,
miraculu di Diu, d’arti e natura.
Celia, 193



Mi sonnai chi vui ed iu, patruna mia,
morti, a l’infernu iamu condannati:
iu, perchì cosa celesti volia,
vui per la vostra tropp crudeltati.
Vui tantu eravu sazia di mia,
chi festa vi paria quantu si pati;
iu, per la vostra vista e compagnia,
stari non mi cridia fra li dannati.
Celia, 222



Venimi in sonnu, poi chi non voi in vigghiu,
puru chi viia a tia, gabbami e fingi,
chi si ben l’umbra indernu abbrazzu e pigghiu,
l’amnti un duci ingannu lu suspingi.
E si burlatu, ohimè, poi mi risbigghiu
E a lu spariri to l’alma si tingi,
purrò laudarmi chiù d’un to assimigghiu
chi di tia stissa, ch’a morti mi spingi.
Celia, 238




Mi gira ntornu la menti un penseri
chi comu senia mai cessa un istanti,
ma cu catusi di doluri veri
ligati a cordi di speranzi erranti,
scindi ed acchiana e torna e scindi arreri
 a lu cori, undi surginu li chianti,
e l’inchi e porta chini di chimeri,
e poi li cala di frutti vacanti.
Celia, 246


Ligami, beni miu, ligami e strinci
cu milli, si non basta un sulu lazzu:
si liga cui la Curti lu costrinci,
si liga cui serra gamba o brazzu.
Si liga in guerra cui si pigghia e vinci,
liga cui è folli e la medulla ha a sguazzu:
ed iu, per lu to amuri chi m’avvinci,
su reu, su infirmu, su scavu e su pazzu.
Celia, 267


Lavati la testuzza, vita mia,
chiù bedda chi non vitti a Febu santu;
ma mi fai ingiuria, ch’essiri vorria
cosa chi ti servissi tanto o quantu.
Sapuni, a li to manu squagghiria;
vacili, appariria la grazia intantu;
o, a nenti a nenti, mi farria liscia,
cinniri st’arsu cori, acqua lu chiantu.
Celia, 287



Gira lu cori comu lignu a tornu
supra dui perni, speranza e disiu;
undi fermu la vista e movu intornu
non scopru umbra di paci, né disviu.
Per tia, ciatu, di morti in vita tornu
E cu tia l’afflittanima recriu,
né mi pari ch’è iornu chiddu iornu
chi lu to suli luciri non viu.
Libru, 10


S’iu t’avia misu in autu a lu zimbellu
fu perchì t’avvinissi zoccu avvinni:
iu l’appassiunatu e tu le beddu,
iu puru puru e tu tutta disinni.
Sapia c’hai mancu fidi d’un ribellu,
sapia chi fraudi e no amuri ti tinni:
cussì comu a la crapa lu sturnellu
suca lu latti e siccacci li minni.
Sdegnu, 32

Su tornatu lanterna, undi si serra
una lucerna ch’ardi in ogni locu:
l’ha fattu Amuri per darimi guerra
e tormentarmi a l’amurusu iocu.
Lu mecciu ch’ardi e ch’a lu focu afferra
è lu miu cori estintu a pocu a pocu,
l’afflittu pettu è lu vasu di terra,
ogghiu  lu sangu e vui siti lu focu.
Canzuni, 1.