"L'INDIFFERENZIATO", Nuova sfida della Bioetica






Maria Rita Fedele 



L'INDIFFERENZIATO

NUOVA SFIDA DELLA BIOETICA

PROFILI DI UNA FILOSOFIA DELLA DIFFERENZA SESSUALE

Maria Rita Fedele è dottore di ricerca in Pedagogia e didattica in prospettiva interculturale presso il Dipartimento FIERI-AGLAIA dell'Università degli Studi di Palermo, bioeticista presso la Scuola di Specializzazione in Bioetica e Sessuologia dell'Università Pontificia Salesiana di Roma, docente di ruolo di Filosofia e storia nei licei e autrice di saggi e articoli in riviste specializzate.

Il volume presenta la riflessione su una nuova sfida della bioetica del nostro tempo: il riconoscimento del valore ontologico ed etico del corpo sessuato. L'analisi del tema prende spunto dal fatto che le nuove sperimentazioni biotecnologiche lasciano intravedere un lento e progressivo oscurarsi del valore della differenza sessuale, nella misura in cui svincolano la procreazione dalle sue intrinseche dinamiche naturali, mettendo in discussione l'aspetto umano del generare, originariamente legato alla differenza sessuale e all'ontologia relazionale del maschile e del femminile. Si propone, quindi, un'analisi introduttiva del tema alla luce dei modelli sociali e culturali che lo caratterizzano, con particolare riferimento critico alle istanze culturali del femminismo postmoderno, che ha determinato una vera e propria metamorfosi della soggettività umana sempre più proiettata verso l'asessuato e l'indifferenziato. Successivamente, l'indagine ontologica sul corpo sessuato si muove lungo i profili di una filosofia  di stile fenomenologico in senso husserliano capace metodologicamente di cogliere la differenza sessuale a partire dalla struttura eidetica invariante e universale del corpo, cifra eloquente della sua originaria configurazione esistenziale. Nell'ultima parte del testo ci si propone di sottolineare infine le implicazioni bioetiche delle nuove sperimentazioni biotecnologiche applicate alla procreazione umana, che prefigurano gli inquietanti scenari di un'eclissi della genitorialità biologica.




Prefazione 
di Luciano Sesta


                                                        
Chi si occupa di bioetica, non può che salutare con interesse l’impresa rappresentata dal presente volume. Già, perché di un’impresa si tratta, vista l’ampiezza, il respiro teorico e il rigore metodologico dell’indagine di Maria Rita Fedele, che ha saputo trattare il delicato e spinoso problema della differenza sessuale con una competenza distribuita su più livelli, da quello medico-scientifico a quello antropologico, da quello bio-etico a quello più spiccatamente filosofico.
Il tema della differenza sessuale, in effetti, è uno di quei temi “trappola” che mentre lasciano credere di essere specifici e circoscritti, abbracciano in realtà tutte le grandi questioni antropologiche ed etiche che impegnano la filosofia, almeno sin da Platone. Maria Rita Fedele, con il suo libro, non si è sottratta a questa sfida, trasformandola in un’opportunità radicale, e cioè quella di ripensare, tramite un confronto serrato con alcune delle più significative posizioni del dibattito contemporaneo, il carattere ontologico, e non soltanto biologico o somatico, della differenza sessuale. L’idea guida dell’intero volume, infatti, è che maschio e femmina non siano due determinazioni “accidentali” di un generico “essere umano” che, dietro e al di là della differenza di genere, conserverebbe la sua sostanziale (e invincibile) neutralità. Quest’ultima ipotesi, secondo alcuni, sarebbe l’unica a garantire l’uguaglianza di uomo e donna in termini di dignità ontologica, evitando che la differenza sessuale risulti talmente radicale da mettere a rischio la sostanziale identità antropologica che rimane intatta dietro la differenza di genere. L’Autrice, ricorrendo a un’originale rilettura del metodo fenomenologico husserliano, cerca invece di “sorprendere” la differenza sessuale nel cuore stesso della persona umana e di riconoscerla come la struttura eidetica del corpo (e dunque come un suo dato invariante e universale) le cui connotazioni maschili e femminili non sono “successive” all’essere persona, ma cifra eloquente della sua originaria configurazione esistenziale.
Non è possibile, qui, seguire puntualmente le singole tappe di un percorso estremamente ricco e articolato, che si snoda su un quadruplice piano, e cioè quello medico-scientifico, fenomenologico, ontologico ed etico. A voler indovinare l’asse portante di questo percorso, mi sia consentito evidenziare almeno il seguente punto: le argomentazioni di Maria Rita Fedele, che non lascia nulla di intentato, soprattutto nel confronto critico con le posizioni “rivali”, si raccolgono tutte intorno all’idea che per accedere al genuino significato della differenza sessuale occorra uno sguardo fenomenologicamente istruito. Si tratta, in altri termini, di prendere sul serio “ciò che appare, così come appare”, facendo di questo apparire non già il punto di partenza di una ricerca di ciò che è, ma il primo e più genuino affacciarsi di ciò che è. A un’ontologia della differenza fra uomo e donna, in altri termini, si giunge prendendo sul serio il fenomeno biologico della differenza sessuale, evitando di farne un accidente empirico di una soggettività neutra, che si rapporterebbe al proprio corpo così come ci si rapporta a un abito di cui si è rivestiti. Mediante una riabilitazione fenomenologica della corporeità sessuata, nel testo si propone dunque di leggere la mascolinità e la femminilità nei termini di una complementarità non fra “sessi”, né fra “corpi”, e nemmeno fra “persone”, ma fra un “uomo” e una “donna”. “Uomo” e “donna”, è questa la tesi di Maria Rita Fedele, sono entità ultime, “sostanze” di cui si può predicare qualcosa – per scomodare Aristotele – ma che non sono a loro volta predicabili di altro, per il semplice motivo che “uomo” e “donna” non sono “qualcosa”, ma “qualcuno”.
L’Autrice procede poi a valutare il carattere strutturale universale del corpo sessuato nell’ambito dell’esperienza familiare e in rapporto alle nuove biotecnologie riproduttive, che sembra abbiano alterato i tradizionali schemi del nostro immaginario collettivo in merito al significato di “famiglia”, costringendoci a confrontarci con altri modelli familiari che ci interpellano prepotentemente in merito all’autocomprensione di noi stessi, in un’epoca, come la nostra, in cui il significato di “famiglia” perde la sua originaria evidenza divenendo una realtà problematica del nostro tempo. La riflessione sulla famiglia appare perciò irrinunciabile, agli occhi dell’Autrice, a motivo del suo carattere paradigmatico e, si potrebbe dire, persino normativo, da cui derivano i legami della genitorialità e della filiazione, che non sono concepibili al di fuori di quella realtà biologico-corporea in cui essi stessi pure s’incarnano. Ogni essere umano, uomo e donna, è sempre figlio. È dunque sempre polo di una relazione che rimonta a ciò di cui egli non dispone, l’evento procreativo, che è a sua volta esso stesso una relazione, quella fra l’uomo e la donna che, unendosi, generano la nuova vita. La madre, si obietterà, può oggi però fare a meno di un uomo/padre nel processo generativo. In che misura dunque la relazione procreativa uomo-donna può essere considerata ancora normativa?  La risposta di Maria Rita Fedele, che trovo convincente, consiste nel dimostrare che la possibilità dell’individualismo procreativo non cancella la differenza sessuale, dandoci piuttosto un’occasione per riscoprirne, oltre alla dimensione biologica, anche la dimensione etica. Proprio perché oggi, diversamente da ieri, non è più scontato che a procreare siano un padre e una madre, cominciamo ad avvertire che la relazione fra uomo e donna non è più (solo) un destino biologico ma sempre anche una scelta morale e, dunque, un’assunzione di responsabilità. Non c’è ontologia della differenza sessuale che non passi attraverso un’etica della differenza sessuale, in cui la bontà di questa differenza appaia, in carne e ossa, nella testimonianza di coloro che ne manifestano, oltre le incomprensioni e i sempre possibili fallimenti, anche la solida armonia.
A quest’ultimo riguardo non si può negare che nel libro l’Autrice abbia raccolto una seconda grande sfida, che è quella del concetto classico di “natura umana”. La categoria, com’è risaputo per chi si occupa di bioetica, non gode oggi di buona stampa. Soprattutto in un contesto che tende a considerarla, sempre di più, come una base biologica neutra, a partire dalla quale lasciare libero corso alla creatività culturale. È in quest’ottica che, com’è noto, si pongono il post-umanesimo, il pensiero cyborg e il trans-umanesimo. Assumendo l’idea che l’uomo è un essere culturale per natura, si ritiene che la sua stessa umanità cresca nella misura in cui si allontana dalla natura, emancipandosi da ogni criterio di giudizio che faccia riferimento al “naturale”. L’essere maschio e l’esser femmina, in sintonia con l’opera profetica di Simone de Beauvoir, appaiono perciò solo come un dato iniziale suscettibile di una libera assunzione, in cui però la differenza sessuale non può in alcun modo costituire un’indicazione del percorso esistenziale che, a partire da essa, ciascuno si assumerà la responsabilità di realizzare. In tal senso, soprattutto se si pensa a fenomeni con il trans-gender, il trans-umanesimo e il cyborg, si potrebbe parafrasare – e radicalizzare – la celebre sentenza della Beauvoir, dicendo che non soltanto “donna (o uomo)”, ma anche “femmina (o maschio) non si nasce, ma si diventa”.
Di fronte a questa sfida, la strategia teorica seguita dalla Fedele, per dirla con Nietzsche, è di usare il corpo come “filo conduttore”. La categoria della corporeità ha in effetti il merito di intercettare le più rilevanti questioni bioetiche, specialmente in casi come quello oggetto di questo libro. Lì dove però la corporeità è considerata non come una parte integrante della persona umana, ma come una sorta di strumento espressivo a disposizione delle esigenze di una qualche res cogitans separata, il risultato è un nuovo dualismo. Un dualismo di cui in letteratura si ama rievocare la matrice cartesiana, ma che, a ben vedere, nasconde ancora qualcosa di aristotelico, e che, di conseguenza, sembra ospitare il principio del proprio possibile superamento. Nel tentativo di plasmare il corpo a immagine e somiglianza dei propri progetti esistenziali, infatti, si annuncia una nuova versione della concezione aristotelica dell’anima forma corporis, ma in senso tecnico e non più metafisico, nel senso cioè di una psiche “pigra”, che non vuole adattarsi al corpo ma che chiede al corpo di adattarsi a sé (vedi il fenomeno del trans-sessualismo o del cambiamento di sesso). Ma anche in questo ridimensionamento psico-tecnico del rapporto fra anima e corpo riemerge l’aspetto classico: il rifiuto psicologico del proprio corpo, infatti, è forse anche sintomo dell’eccedenza dell’anima sul corpo: solo perché ha ragione Aristotele, e cioè solo perché “l’anima è in un certo modo tutte le cose”, “un” corpo “le sta stretto”.
Qual è allora la via di soluzione? Uomo e donna sono res cogitans al cospetto di una materia indifferente che prenderà la forma che essi, come pure “persone”, sceglieranno di imprimerle? La risposta della Fedele è che soltanto prendendo sul serio ciò che siamo senza averlo deciso, e dunque soltanto ponendoci in ascolto della nostra natura sessuata, potremmo avviare un progetto esistenziale che ci mantenga “in amicizia con noi stessi e con l’altro”. Una risposta, questa, che oggi rischia forse di apparire ingenua, ma di cui questo libro fornisce una tale gamma di supporti argomentativi, da renderla degna di attenzione per chiunque voglia interrogarsi criticamente sul “futuro della natura umana”. 
  
                                                                                               Luciano Sesta
                                                                                          Docente di Bioetica
                                                                                          Università di Palermo




                                       Introduzione                                       

Il volume propone la lettura di un tema che è divenuto oggetto di attenzione solo recentemente nell’ambito della letteratura scientifica della bioetica e, giungendo tardi alla coscienza dei contemporanei, si presenta, pur nella sua complessità, come una delle questioni portanti del nostro tempo. Si tratta della differenza sessuale, che qui viene studiata  a partire dall’analisi dei modelli interpretativi sociali e culturali, che la caratterizzano, ma soprattutto nell’ambito dei nuovi orizzonti dischiusi dal rapido avanzamento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche relativamente alla biologia riproduttiva.
Le nuove possibilità procreative introdotte dalle biotecnologie riproduttive lasciano intravedere un lento e progressivo oscurarsi del valore ontologico ed etico della differenza sessuale, nella misura in cui svincolano la procreazione dalle sue intrinseche dinamiche naturali, mettendo in discussione l’aspetto umano del generare, originariamente legato alla differenza sessuale e all’ontologia relazionale del maschile e del femminile.
Ora, la natura sessuata del corpo risponde innanzitutto –ma non solo- ad un finalismo biologico che tutela la specie umana: segna nei corpi due differenze sessuate e ne determina il legame. In questo senso, se da un lato l’ampliamento delle conoscenze scientifiche ha reso possibile diversi interventi utili e migliorativi nell’ambito della biologia riproduttiva, sia a livello diagnostico che terapeutico, dall’altro lato ha aperto scenari inquietanti, ponendo quella che possiamo considerare la domanda originaria: tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente lecito?
L’ultima sfida nell’ambito della biologia riproduttiva è posta, infatti, da alcune recenti sperimentazioni condotte a scopi terapeutici (cura dell’infertilità maschile o femminile) che potrebbero consentire di ottenere con successo cellule germinali primordiali e gameti aploidi (spermatozoi e ovuli) da cellule staminali sia embrionali che di altra origine. Tali sperimentazioni annunciano delle novità probabilmente promettenti per la scienza medica, nella misura in cui riescono a dare una risposta concreta ai problemi d’infertilità maschile e femminile, ma sicuramente discutibili sotto il profilo bioetico. Infatti, esse potrebbero essere applicate oltre gli scopi strettamente terapeutici dell’infertilità, realizzando, in un futuro che non appare poi tanto lontano, la possibilità per la donna di mettere al mondo un figlio esclusivamente da sola senza il contributo genetico dell’uomo, attraverso le cellule germinali maschili prodotte da cellule staminali del proprio midollo osseo e i propri ovuli.
Questa sfida impone di guardare al futuro della natura umana, allo statuto etico del corpo sessuato, dato che il genere umano sembra andare incontro ad una configurazione neutra o, per meglio dire, indifferenziata, tendente ad astrarre dalla dimensione concreta e biogeneticamente determinata della persona umana sessuata.
L’avanzamento biotecnologico ha delle profonde implicazioni in merito al corpo e alla tutela della sua natura, che, dunque, non possono essere trascurate nella misura in cui il potere tecnologico, disponendo di cellule germinali a scopi sperimentali, incide sul bios, sulla presa in gestione della vita riproduttiva, rendendo possibile una procreazione svincolata dalla sessualità e dall’ontologia relazionale della differenza sessuale. Per tali ragioni, la proposta del tema si muove sia nell’ambito di una bioetica fondamentale della differenza sessuale che nell’orizzonte di una pedagogia della persona umana sessuata.
La bioetica, nel riconoscere il valore della differenza sessuale, deve, innanzitutto, superare l’unilateralità di due riduzionismi, da una parte il biologismo e dall’altra il culturalismo, che se assolutizzati non colgono la complessità e il valore della sessualità umana: il riduzionismo biologico lega, infatti, la differenza sessuale esclusivamente a fattori di carattere biologico, il riduzionismo culturale nega la differenza sessuale sul piano di un’ontologia dell’essere umano e la riconduce semplicemente a fattori di carattere culturale e storico. L’analisi descrittiva del fenomeno, di cui è questione in questo lavoro, si sofferma, pertanto, su un dato ontologico originario indisponibile, che inerisce costitutivamente all’essere umano: la differenza sessuale.
Dato a se stesso come corpo che non si è scelto, consegnato ad una situazione determinata, che è già il suo spazio geografico e la sua epoca storica, ciascuno vive e s’interpreta a partire da questa “porzione” di mondo già dato. In altri termini, l’essere nel mondo non è originariamente scelto dal soggetto; il suo progetto esistenziale non dipende da lui nella sua interezza e sfugge, per certi versi, nei suoi fondamenti, sfocando in un orizzonte che rende impossibile un “assoluto cominciamento”. In ciò consiste, per ricorrere alla filosofia esistenziale di Essere e Tempo, l’esser-gettato (Geworfenheit) nel mondo o, in altri termini, l’effettività dell’esser-rimesso ad una situazione iniziale, che è segno della finitezza costitutiva dell’umano[1].
Pur tuttavia, l’esistenza della persona, nel suo essere incarnata “in” e “da” un corpo si dispiega per ciascuno come un divenire che restituisce alla dimensione ontologica universale dell’essere corpo - cioè al nostro essere differenziati in maschi e femmine- la consistenza di un’esperienza singolare, unica ed irripetibile, ma a cominciare appunto da quel corpo che si è già. Siamo consegnati, sin dall’inizio, ad un corpo sessuato che non abbiamo scelto e che segna i limiti ontologici dell’umano e ne determina, come appena detto, il carattere della finitezza.
La scelta metodologica che è alla base del presente lavoro consiste, quindi, nel provare a delineare alcuni elementi di base per un’ontologia della differenza sessuale, un’ontologia adatta al nostro tempo, nella convinzione che la differenza tra il maschile e il femminile non sia riducibile alle dimensioni biologiche, in quanto riguarda soggetti, vissuti, relazioni ed esperienze umane, ma nemmeno, dall’altra parte, sia pensabile a prescindere dalla dimensione corporea che ci fa essere al mondo come corpo, cioè come soggetti sessuati nella differenza.
Siamo però consapevoli del fatto che la domanda ontologica, che si pone nel presente lavoro, non sia in sintonia con i caratteri prevalenti del nostro tempo, caratterizzato piuttosto dall’istanza della indefinibilità dell’essere così come annunciata dalla filosofia heideggeriana, per la quale ogni questione che conduce al problema ontologico appare a tanti ormai superata. “Ontologia” è il termine adeguato per denotare ciò che si riferisce all’essere categoriale di realtà cioè all’essenza o alla natura propria dell’esistente.
Nella tradizione filosofica dell’Occidente, come è noto, è termine corrente; “ontologico”, infatti, è detto di ciò che si riferisce ai caratteri fondamentali dell’essere, a quelle determinazioni necessarie  che ogni essere ha e non può non avere per essere ciò che è. Se si fa riferimento ad alcune posizioni teoretiche del femminismo contemporaneo postmoderno, si può rilevare che la differenza sessuale non è affrontata come una “questione ontologica”, perché l’ontologia sottolinerebbe la caduta in un “essenzialismo dei generi” fortemente discriminante per le donne. Secondo questa prospettiva di lettura della differenza sessuale, l’individuazione di un’essenza del maschile e del femminile implicherebbe un esclusivo riferimento alla componente biologica, che destina le donne al corpo e, dunque, a compiti meramente riproduttivi.
Il femminismo postmoderno evidenzia, però, a mio modo di vedere, dei limiti costitutivi e fondazionali nell’analisi della questione: nel tentare un approccio che possa decostruire l’unico processo responsabile delle discriminazioni di genere, cioè la costruzione culturale e storica della differenza sessuale, finisce con l’escludere l’incidenza che ha il corpo nella determinazione della differenza stessa tra uomo e donna. Il rischio che si configura nell’ambito di tale prospettiva di analisi è quello di far sparire la differenza ontologica tra i due sessi, una differenza che si trova inscritta nella natura sessuata del corpo cioè in quelle determinazioni essenziali dell’essere maschio e dell’essere femmina.
Nel capitolo terzo, l’indagine fenomenologica, finalizzata alla fondazione ontologica della differenza sessuale, viene condotta attraverso un’antropologia filosofica che si ispira alla filosofia di Edmund Husserl. In tal senso, la fenomenologia husserliana sembra offrire numerosi spunti dal punto di vista metodologico, non per il fatto che tale tema risulti attenzionato da Husserl, pensatore estraneo al discorso filosofico sulla differenza sessuale, o che abbia trovato una specifica trattazione nell’ambito della sua produzione scientifica, ma in ragione del fatto che la fenomenologia husserliana, come già acutamente nota Heidegger in Essere e Tempo, è un’ontologia. In altre parole, «l’ontologia è possibile soltanto come fenomenologia»[2]. Il concetto husserliano di fenomeno rimanda, però, all’automanifestazione dell’essere dell’ente, per lo sguardo educato dall’esercizio dell’epoché fenomenologica.
Partire, dunque, da un’ontologia della differenza sessuale appare fondamentale ai fini della determinazione dei limiti della liceità delle applicazioni biotecnologiche al corpo umano e alla vita riproduttiva: senza il riconoscimento dello statuto ontologico e etico del corpo sessuato si sarebbe portati a ritenere legittime tutte le tipologie di intervento biotecnologico sul corpo nell’ambito della procreazione umana. La nostra epoca, segnata dai progressi della scienza e della tecnica, si avvia, infatti, verso il futuro dell’uomo bionico, del post-umano, del Cyborg, dell’asessuato.
Sono queste le ragioni che spingono la nostra riflessione a prendere in seria considerazione il problema ontologico della differenza sessuale, per poter affrontare le nuove sfide bioetiche nel tempo della postmodernità. Un approccio fenomenologico è, pertanto, un approccio eidetico alla differenza sessuale  perché intende la struttura invariante del fenomeno «corpo», cioè la natura sessuata del corpo e fonda la differenza sessuale come differenza ontologica.
Il corpo umano presenta delle proprietà strutturali invarianti che hanno portata ontologica e che sono proprietà necessarie in grado di valere come proprietà costitutive e non accidentali dell’essere donna e dell’essere uomo. Nel linguaggio della fenomenologia, in una prospettiva nuova rispetto all’idealismo platonico, le proprietà essenziali e costitutive dell’essere sono definite essenze cioè proprietà che appartengono alla realtà tale che, senza di esse, questa non potrebbe sussistere come quella realtà determinata che essa  è.
Ora,  la scienza eidetica del corpo sessuato, così come viene prospettata nel capitolo terzo, rimanda al corpo come oggetto privilegiato di studio e di riflessione e ci consente di riconoscere nel corpo sessuato la struttura originaria invariante che pre-definisce la nostra esistenza e che si mostra con evidenza originaria ad una intuizione eidetica o, come si potrebbe anche denotarla, una visualizzazione dell’essenza.
In questo senso, l’analisi eidetica, condotta secondo lo stile fenomenologico husserliano, offre la possibilità di riconoscere una grammatica universale del corpo, che trova fondamento in una ontologia della differenza sessuale, in quanto ci descrive strutturalmente che cos’è il corpo sessuato: ciò che accomuna sul piano universale le donne fra di loro e gli uomini fra di loro,  consentendoci di differenziarli e di poterne definire i lineamenti di una fenomenologia della differenza.
Trattare la differenza sessuale come un dato strutturale del corpo significa poter individuare quell’invarianza ontologica che si dà come carattere permanente, astorico e transculturale che accomuna le donne in generale distinguendole dagli uomini in generale. Anche a chi non è disposto a riconoscere la differenza sessuale come una differenza originaria costitutiva del genere e volesse interpretare il dimorfismo sessuale come un prodotto culturale  e storico, è impossibile non  riconoscere con evidenza che esiste un dato ontologico ultimo, non ulteriormente questionabile, che differenzia il femminile dal maschile e che si manifesta, nella maniera più irriducibile nel corpo; senza il riconoscimento di questo dato si occulterebbe la dimensione esistenziale unica e irripetibile con cui ciascuno di noi si ritrova ad essere nel mondo.
Lo stile fenomenologico con cui si avvia l’analisi eidetica del corpo rimanda contestualmente ad un nuovo modo di fare ontologia della differenza sessuale, potremmo dire che rimanda ad una ontologia fenomenologica, diversa nella sostanza dalla ontologia classica, che, coglie nel dato invariante ed universale l’essenza costitutiva di un oggetto o di una cosa, rimanendo legata al piano dell’invarianza sostanziale[3].
Il riferimento all’ontologia fenomenologica husserliana appare significativo in quanto ci consente, a differenza dello stile dell’ontologia classica, di tenere dialetticamente insieme l’universale o l’invariante e il particolare, cioè il mutevole, riconoscendo, in chiave fenomenologica, la declinazione esistenziale della differenza sessuale. L’approccio e lo stile di pensiero che la fenomenologia husserliana adopera nello studio dei fenomeni consiste, infatti, nel ritenere che essi, lungi dall’essere mere apparenze, «portano all’esistenza e alla luce cose nuove rispetto ai costituenti di base, di cui pure ogni cosa è fatta» e così «ogni persona è una cosa nuova rispetto all’organismo umano che la costituisce» [4].
Il maschile e il femminile, allora, solo apparentemente costituiscono l’oggetto di una semplice definizione, poiché la differenza sessuale, in quanto differenza che riguarda l’umano tout court,  non si presta del tutto ad essere definita secondo le categorie dell’ontologia classica, interessata più a rispondere alla domanda del «che cos’è» piuttosto che alla domanda personale del «chi è». La differenza sessuale rimanda, infatti, ai significati che ogni persona attribuisce alla propria esperienza di corpo sessuato secondo modalità esistenziali uniche, singolari e irripetibili.
Il riconoscimento di questa complessità della questione non equivale però ad affermare l’inconsistenza ontologica della differenza sessuale, ma si tratta di assumere un dato che sfugge per certi versi alla dicibilità categoriale tipica della ontologia classica, in ragione del fatto che ciò che si vive come corporeità è sempre legato inevitabilmente ai propri vissuti e, dunque, alla propria irriducibile singolarità.
Possiamo allora dire che la differenza sessuale è sempre declinabile, in modo personale, nei suoi contenuti, ma non nella sua forma, ed è, perciò, espressione del diverso modo di essere al mondo come corpo. Parafrasando il linguaggio husserliano, la differenza sessuale è declinabile nei suoi riempimenti di significato in modo diverso da donna a donna, da uomo ad uomo e fra uomo e donna. Il rimando al corpo, però, ci consente di riconoscere quella struttura eidetica originaria della differenza, l’eidos corporeo nella quale trova espressione ogni individualità maschile o femminile che si determina a partire da quel dato, ma che si riempie di significati nelle sue declinazioni esistenziali. Un approccio “ontologico” alla differenza sessuale condotto secondo lo stile fenomenologico husserliano ci consente di tenere insieme l’universalità dell’essenza e la singolarità dell’esistenza e, allo stesso tempo, di richiamare quel dato ontologico ultimo ed indisponibile, inscritto nel corpo, al mondo della Lebenswelt, il mondo dei vissuti soggettivi, che non è mai ontologicamente dato e, comunque, sempre presupposto. I tratti di questa nuova ontologia conducono, quindi, al discorso sui fondamenti della differenza sessuale di fronte alla sfida della postmodernità, che è rappresentata dall’indifferenziato sessuale.
In questo percorso di analisi descrittiva del fenomeno, l’istanza costitutiva della ricerca consiste in una critica del modello paradigmatico della differenza sessuale elaborato dal femminismo della postmodernità, in cui natura e cultura vengono ripensate, ma senza che la prima possa costituire più una risorsa per la seconda[5].
Nell’ambito di questa linea interpretativa della differenza sessuale si colloca la figura emblematica di Simone De Beauvoir, per la quale il dato biologico corporeo non ha in sé e per sé un significato e un valore, in ragione della sua presunta tesi per cui i confini tra uomo e donna non sono naturali e, dunque, biologico-anatomici, ma il prodotto ultimo di una costruzione culturale e sociale.
Ora, poiché la nostra indagine fenomenologica è finalizzata innanzitutto alla fondazione ontologica della differenza sessuale, si è resa necessaria, nel capitolo secondo, una riflessione di “prima istanza” in cui si apre un fecondo dialogo con le scienze biomediche sia per i contributi scientifici che esse offrono allo studio del fenomeno che per la complessità stessa del nostro tema, oggetto di studio. Il bisogno di una riflessione sull’argomento può essere, infatti, soddisfatto attraverso un approccio che metta a confronto, integrandoli, i diversi ambiti disciplinari –biologico, biomedico, storico, etico-filosofico, psico-pedagogico- evitando, in tal modo, che la differenza sessuale possa essere considerata l’oggetto di un esclusivo ambito di sapere.
L’incontro con le scienze biomediche è apparso soddisfacente e produttivo, poiché ha consentito di rilevarne una notevole portata conoscitiva: il riconoscimento di una verità biologica e/o fisiologica della differenza sessuale, che ci informa della natura sessuata del corpo. Le acquisizioni scientifiche, che ci provengono dagli studi biomedici relative allo sviluppo sessuale consentono, infatti, di constatare come sia presente una concatenazione di fenomeni biologici molto complessi che strutturano il corpo, dotandolo di un’identità sessuata. Le scienze biomediche portano, dunque, ad evidenza che la differenza sessuale è radicata nel corporeo, nel bagaglio biologico, oltreché antropologico della persona.
Per una fenomenologia della differenza sessuale è, però, fondamentale aprire un’ulteriore domanda di senso su questo dimorfismo sessuale, poiché la riflessione di “prima istanza” presenta dei limiti e delle insufficienze dovute al fatto che le stesse scienze biomediche sono incapaci di intendere la differenza sessuale in un più vasto orizzonte metascientifico.
Nel terzo capitolo, è stato necessario, per tali ragioni, delineare i tratti fondamentali di una riflessione di “seconda istanza”, la riflessione fenomenologica in senso proprio e adeguato, che accoglie dalle scienze biomediche il dato biologico della differenza sessuale, ma ne affida la domanda di senso ad un’antropologia filosofica di stile fenomenologico. Tale riflessione procede oltre quell’ovvietà biologica cui le scienze biomediche restano legate, riducendo la differenza sessuale agli scopi ultimi del finalismo biologico riproduttivo, e ci restituisce squarci di profondità intorno a ciò che per le scienze biomediche rimane alla superficie. In questo orizzonte metascientifico della ricerca di senso, il corpo sessuato mostra il segno della finitezza umana, poiché appare come l’espressione più autentica di una datità originaria indisponibile che non può essere elusa in modo radicale.
E’ questo il dato originario, che la riflessione fenomenologica di seconda istanza pone alla nostra attenzione; esso segna la verità dialogica dell’essere umano, la cui ontologia si dispiega in una apertura all’alterità, a motivo anche della sua originaria incompletezza e insufficienza. Sicché l’indagine fenomenologica della differenza sessuale diviene, nella seconda parte del testo, un’ermeneutica della finitezza umana e converge verso un’etica del reciproco riconoscimento, che vuole conferire alla storica dialettica dei due sessi un nuovo corso e una nuova direzione. La differenza sessuale, incarnata nel corpo, richiama il tema delle origini e interpella la categoria fondativa di ogni essere umano, che è la nascita, quell’evento singolare e unico che, indipendentemente dalla nostra volontà, ci consegna ad un corpo, scrivendo una storia differentemente sessuata.
Nei capitoli quarto e quinto, è apparso proficuo, pertanto, prendere in considerazione quanto la storia ci consegna. Dal dato storico, che offre un altro aspetto interessante del fenomeno analizzato, apprendiamo che non sempre la relazione tra i due sessi è stata segnata da un reciproco riconoscimento. La dialettica tra i due sessi si è storicamente risolta ora in un rapporto di predominio del maschile sul femminile ora in un’istanza femminile di totale liberazione dal maschile.
Se questa seconda istanza è più recente e trova collocazione storica nel femminismo radicale della postmodernità, la violenza contro il femminile è molto più antica e, come afferma Adriana Cavarero, va ricercata nella grecità, in particolare nella filosofia greca, ma anche nell’immmaginario collettivo del femminile, che ci viene restituito dai miti e dalla tragedia greca. In questo contesto, il dato storico ha consentito di rilevare che la differenza tra i due sessi si è  storicamente sedimentata e stratificata lungo un percorso di significazione che ne ha impedito di riconoscerne il valore.
Nel quarto capitolo, si delineano, pertanto, alcune figurazioni storiche del femminile nell’ambito della tradizione culturale dell’Occidente, che, attraversando i sentieri del mito e della filosofia, mostrano come il maschile, tradizionalmente localizzato in uno spazio pubblico, sia per emblema politico; al contrario, il femminile, è assegnato, in ragione del sesso, ad uno spazio esclusivamente privato: l’oìkos.
Ora, l’incontro tra i due sessi, se configurato entro i nuovi orizzonti del reciproco riconoscimento, può divenire allora per l’uomo e per la donna l’occasione di una conoscenza personale, che è l’opposto del conoscersi da sempre o del sostare su pregiudizi di etichettamento dell’Altro/a. L’urgenza di procedere da un’ontologia della differenza sessuale ad un’etica del reciproco riconoscimento si basa, perciò, sul fatto che la consapevolezza dell’umana distinzione in una differenza sessuata, da sola, non basta: senza l’amore e il riconoscimento reciproco la differenza sessuale è piuttosto fonte di separazione e di solitudine. Non è sufficiente scoprirsi differenti biologicamente per superare l’isolamento che costituisce il reale problema dell’esistenza umana e, in particolare, dei rapporti tra uomo e donna nel nostro tempo. L’incontro con la differenza, se autenticamente vissuto, può divenire sia per l’uomo che per la donna, il sentiero luminoso di un percorso esistenziale condiviso con responsabilità e rispetto reciproco.
Nel sesto capitolo, la differenza sessuale è, dunque, ripensata all’interno di una logica relazionale; il peculiare di tale logica sta nel fatto che essa deve poter pensare insieme i due termini della relazione, il maschile e il femminile, cioè non può pensare la differenza in termini dialettici dove l’altro è per negazione dell’uno o viceversa. Il senso della differenza maschile-femminile non sta, infatti, né nell’uno, né nell’altro dei due sessi, ma nella loro relazione e può, dunque, essere dischiuso a partire da questa correlazione.           
Pensare la differenza sessuale nel tempo della postmodernità vuol dire, dunque, pensare lo spazio del neutro che, secondo l’etimo latino neuter, non è né soltanto lo spazio del maschile né soltanto quello del femminile, bensì uno spazio condiviso, perché appartiene alla relazione; è uno spazio in cui, parafrasando Heidegger, il tempo dell’EsserCi diviene tempo del Mit-Dasein ( Con-EsserCi).
Negli ultimi due capitoli sono individuate, infine, le implicazioni bioetiche e le questioni pedagogiche che sono conseguenti all’analisi fenomenologica della differenza sesuale. La bioetica rivela innanzitutto un nesso costitutivo con l’educazione e ciò implica che in ambito pedagogico la formazione personale sia sostenuta sempre in riferimento al contesto di appartenenza di ogni individuo, contesto che non è solo storico, culturale, ma anche biologico.
Ciascun individuo interpreta sé stesso e il rapporto con gli altri in un lavoro continuo di personalizzazione della propria esistenza, in un incessante dialogo tra l’ essere corpo e il sentirsi corpo. Sottolineando il valore ontologico e etico del corpo e della differenza sessuale in esso incarnata, s’intende riconoscere anche sul piano pedagogico la valenza etica del bios, in cui ciascun soggetto si dà come persona umana sessuata. L’esperienza umana rivela, come abbiamo già sottolineato, che l’essere consegnati ad un corpo sin dalla nascita implica sempre un costante riferimento a quel corpo che si è. Inoltre, se l’esperienza di sé e dell’altro trova fondamento nell’esperienza corporea, appare rilevante anche sul piano pedagogico la lezione husserliana sull’ “intersoggettività”: l’altro che si fa spazio nel mio orizzonte personale, sulla base di un’esperienza estetico-corporea (Einfühlung) è innanzitutto un altro corpo, da cui dipendono emozioni, sentimenti, vissuti differenti dai miei[6].
In questa direzione, prende corpo, nell’ultimo capitolo, il percorso di riconoscimento del carattere strutturale universale dell’esperienza familiare da cui derivano i legami della genitorialità e della filiazione, che non sono concepibili al di fuori di quell’immmaginario simbolico collettivo che rimanda a quella realtà biologico-corporea in cui essi si incarnano: la differenza sessuale.
In quanto sessuati nella differenza, gli esseri umani divengono figlio/a, padre/madre, e trovano conferma della loro identità nella struttura antropologica della genitorialità che possiede una finalità strutturale di fondo a garanzia della prima forma di riconoscimento. Si tratta, per richiamare il linguaggio di P.Ricœur, del “riconoscimento nel lignaggio”, quello cioè che garantisce l’ordine delle generazioni[7].
Come nota il filosofo, sono tre le invarianti che strutturano il nostro essere nel mondo: «ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e di una donna (qualsiasi siano, a esclusione della clonazione, le tecniche di fecondazione di un ovocita); ciascuno è per nascita situato in una fratria; infine nella fratria l’ordine tra  fratelli e sorelle non può essere scavalcato»[8].
Per queste ragioni, la riflessione verte, nell’ultimo capitolo, su alcuni aspetti controversi posti dalle nuove biotecnologie riproduttive, che, nel nostro tempo, sembra vadano determinando una vera e propria eclissi della genitorialità biologica, riscrivendo nuove forme familiari in una realtà umana che si fa sempre più complessa e, per certi aspetti, problematica.





[1] Cfr. Heidegger  M., Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano, 2008, § 29, p. 168
[2] Cfr. Heidegger  M., Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano, 2008, p.51.
[3] Si rimanda al significato dell’ontologia del nuovo, che Roberta De Monticelli chiarisce nell’ambito di ciò che, a suo parere, costituisce la «rivoluzione fenomenologica» introdotta dalla filosofia husserliana nello studio dei fenomeni.
Cfr. De Monticelli R., Conni C., Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, Mondadori, Milano, 2008
[4] Ibidem, p. XII
[5] Cfr. De Lauretis T., Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. 104-106;
Haraway D.J., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 40-42;
Cavareo A., Restaino F., Le filosofie femministe, Mondadori, Milano, 2002, pp.202-204.
[6] Cfr. Husserl E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it.di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 199
[7] Cfr. Ricœur P., Percorsi del riconoscimento, trad. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano, 2005, pp. 216-219
[8] Ibidem, pp. 216-217




INDICE


Capitolo I 
Come concepire la differenza sessuale nel tempo della postmodernità
Capitolo II
Ontologia della differenza sessuale e implicazioni bioetiche
Capitolo   III
Per una filosofia fenomenologica della differenza  sessuale
Capitolo  IV 
Figurazioni del femminile nella tradizione culturale del mito e della filosofia greca
Capitolo V
Percorsi teoretici di filosofia della differenza
Capitolo VI
Lineamenti di un'etica del reciproco riconoscimento
Capitolo VII
Implicazioni bioetiche e prospettive pedagogiche
Capitolo VIII
Trasformazioni familiari indotte dalle nuove biotecnologie riproduttive






Monreale- Ex Monastero dei Benedettini




Presentazione libro 
"L'INDIFFERENZIATO

NUOVA SFIDA DELLA BIOETICA"

PROFILI DI UNA FILOSOFIA DELLA DIFFERENZA SESSUALE
di Maria Rita Fedele


INTERVERRANNO:
Prof.ssa Maria Teresa Russo dell'Università degli Studi Roma Tre

Prof.ssa Carla Canullo dell'Università degli Studi di Macerata

Prof. Giuseppe Savagnone, Componente del Comitato nazionale di Bioetica

Modera l'incontro il Prof. Luciano Sesta, docente di Bioetica dell'Università di Palermo

Porgeranno i saluti il Sindaco di Monreale, Avv. Filippo Di Matteo e l'Assessore alla Cultura, Lia Giangreco

Presente l'Autrice








































Filippo Paladini, "Il martirio di S. Placido"

Ex Refettorio- oggi Aula Consiliare




















PALAZZO CUTO'




Palazzo Cuto’
A Monreale,  lo storico quartiere Ciambra,  sottostante alla parte absidale  del Duomo, è ubicato su uno sprone roccioso che domina la Conca d'Oro  e si rapporta strettamente al retro della possente e raffinata volumetria delle absidi. In principio la Ciambra era avamposto di difesa per gli avvistamenti sulla Conca d'Oro di eventuali attacchi nemici.
La Ciambra conserva ancora il suo impianto medievale: le strade strette e lastricate, i vicoli pittoreschi,  i caratteristici archi custodiscono un'impronta remota ed un fascino indefinibile. Un  luogo, ove si ha l'impressione che  il tempo si sia fermato. Qui, abitava la prima comunità cristiana al servizio del re normanno Guglielmo II il  Buono durante l'edificazione del complesso abbaziale.
Il toponimo Ciambra  ha origine dal termine francese "chambre"   camera o stanza, perchè vi erano le stanze del palazzo della corona. Probabilmente i primi abitanti sono stati gli addetti al servizio del re, le maestranze occupate nella edificazione del Duomo e dell'Abbazia.
Il quartiere si visita percorrendo strade strette, senza marciapiedi, corte e alcune ancora acciottolate. Camminando si notano i caratteristici archi ed i cortili riccamente decorati dai cittadini con rigogliose piante e rampicanti. Le case sono basse e vicinissime, infatti tutti gli spazi sono sfruttati al massimo. Qui, l'armonia dell'ambiente è affascinante, si ha la sensazione di vivere in un microcosmo urbano incontaminato dai fragori del progresso.


       Palazzo Cutò viene costruito nella seconda metà del sec. XVII.
L'edificio, meglio definito "casina di caccia" è stato la residenza del principe Alessandro Filangeri Mastrogiovanni Tasca primo principe di Cutò.  Si trova alle spalle del Duomo e del Palazzo Arcivescovile orientato a mezzogiorno rispetto al quartiere. La parte posteriore dell'edificio si affaccia a balcone sulla Conca d'Oro e da qui si può ammirare il suggestivo panorama che guarda tutto il golfo di Palermo. La facciata del palazzo si sviluppa attorno ad un cortile di forma trapezoidale chiamato Largo Cutò, chiuso su tre lati, mentre il quartiere apposto alla facciata è aperto agli angoli degli innesti di via Piave e via Cutò. L'edificio al suo esterno è in ottimo stato di conservazione, presenta un portale in tufo ed in alto una merlatura a coda di rondine. L'interno del Palazzo è diviso in ventidue stanze. Sul terrazzo, oltre al su citato panorama, si può ammirare, all'interno di una nicchia, una fontana addossata al muro databile con ogni probabilità al '600. Oltrepassando un arco si accede alla rientranza dove è sistemata la fontana, in basso, al centro di essa, è scolpito uno stemma araldico (notizie gentilmente concesse dalla famiglia La Bruna, attuale proprietaria del palazzo).



































































Gli eredi del principe Alessandro Mastrogiovanni Tasca, nel corso degli anni, abbandonano l'edificio.
Alla fine degli anni sessanta, il monrealese La Bruna acquista quel rudere in stato di degrado e abbandono. Negli anni settanta, grazie all'impegno personale e privato della famiglia La Bruna, viene realizzato un primo intervento di restauro, negli anni novanta un secondo intervento.
Oggi, Palazzo Cutò è abitato da uno dei fratelli La Bruna.

Francesco Maria La Bruna
ha terminato gli studi presso il Conservatorio di Musica "Arrigo Boito" di Parma.
Premiato in diversi concorsi e rassegne musicali nazionali, dal 1983 svolge un'intensa attività concertistica tanto da solista che in ensembles cameristici tra cui l'Orchestra da Camera "I virtuosi dell'Accademia" di Firenze, "Il Ruggiero" di Bologna, "Zephir Ensemble" di Palermo, "Officina Musicale Italiana" de L'Aquila, "Auser Musici" di Pisa. Insieme ad essi ha preso parte a numerosi manifestazioni nazionali ed internazionali tra cui: Festival Ars Elettronica di Linz, 55° Maggio Musicale Fiorentino, Rassegna del Queen Elisabeth Hall di Londra, Internationales Festival fur Neues, Musiktheater di Monaco, Festa della Musica di Parigi (Istituto Italiano di Cultura), incontri culturali del Vissenschaft Kolleg di Berlino, Festival Musica Italiana in Normandia, Bologna Festival, Sagra Musicale Umbra, CIDIM Nuove Carriere di Roma, I.R.E. di Venezia, Settimana di Musica Sacra di Monreale, Festival di Musica ebraica a Praga, 41° Festival "Settimane Musicali" di Stresa, Seminario internazionale su "L'eredità di Ivan Ilich" di Bologna, VIII^ edizione Festival Toscano di Musica Antica, VII edizione del Festival di Musica Antica di San Vito dei Normanni, Giornate internazionali di Musica Antica al Konzerthaus di Berlino ed altre manifestazioni musicali in Francia, Germania, Svizzera, Austria, Grecia, Danimarca, Olanda, Belgio, Cecoslovacchia, Croazia, Slovenia, Spagna. Per le etichette EMI, Rodolphe Florence International, Harmonia Mundi, Nuova Era, Tactus, Symphonia, Agorà, Hyperion ha partecipato a numerose registrazioni radiofoniche e discografiche. Dal 1996 è componente dell'E.S.T.A. (European String Teacher Associacion). E' fondatore dell'Ensemble "Le Brun" con il quale, utilizzando il violino barocco, si dedica alla prassi esecutiva antica, ricercando ed eseguendo musiche del repertorio strumentale del XVII e XVIII secolo poco note od eseguite. Ha collaborato come consulente musicale a diverse produzioni radiofoniche e televisive in Francia, Germania, Italia, Danimarca, Spagna. ha composto ed eseguito musiche per spettacoli teatrali di registi come Franco Scaldati, Carlo Quartucci, Edoardo Siravo. Nel dicembre 1994, gli è stato conferito il premio di cultura Città di Monreale per l'attività concertistica. Dal 1982 al 1986 ha insegnato presso il Conservatorio "A. Boito" di Parma ed è attualmente titolare della cattedra di violino presso il Conservatorio "V. Bellini" di Palermo.  

Francesco Maria La Bruna











(Si ringrazia l'Associazione Culturale 
"Palazzo Cutò" per la  disponibilità)