MOSTRA d'arte a cura di G. TROTTA



MOSTRA D'ARTE 
di 
PITTURA E FOTOGRAFIA
a cura di Giampaolo Trotta






GIAMMARCO AMICI


Frammenti di vita e di morte, lucidi aneliti di pace

"Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. [...] Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
 E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane"
Ugo Foscolo (1778-1827),
De i Sepolcri


Giammarco Amici, fotografo, Combat Media Camera dell'esercito italiano, ha oramai al suo attivo importanti mostre sia in Italia che all'estero.
In un mondo nel quale l’arte, seguendo gli impulsi e le nevrosi e il disincanto dell’anima contemporanea, si è allontanata dalla realtà per inseguire - sia nel campo della pittura, sia in quello della stessa fotografia - miraggi informali, astrazioni più cerebralmente concettuali, le istantanee mirabilmente impressionate da Giammarco Amici ci testimoniano, invece, come proprio nell’oggettività del reale è sempre insito il seme più puro e profondo dell’emozione umana.
Le sue fotografie non sono mai un cinico o artefatto compiacimento sugli orrori delle guerre, per destare emozioni che attraggano amanti della violenza e dell'orrido, né, d'altro canto, una sterile e demagogica denuncia sociale, astratta o politicizzata; esse non ritraggono mai l'effetto devastante su corpi umani uccisi o mutilati, in altre parole non raffigurano mai l'evento bellico in sé, ma gli effetti della guerra sul territorio, sulla città, sulle usanze e sui costumi delle popolazioni, sulla vita di uomini e di donne, su anziani e bambini. Una pacata e lucida riflessione, senza retorica e senza enfasi, sulla morte e sulla vita, aprendosi a un desiderio di pace concreto ed equilibrato, mai utopico o deviato da ideologie, come si conviene ad un vero artista super partes e - aggiungiamo - ad un militare che bene rappresenta lo spirito del nostro Esercito in quelle missioni di pace all'estero che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.
Amici, quasi come un novello Omero di foscoliana interpretazione, con le sue foto immortala come icone nell'immaginario collettivo e nella coscienza sociale quelle persone qualunque, travolte da tribolazioni, da dolori incommensurabili e dalla morte, tramandandone la memoria che così la Storia mai più potrà cancellare.
Un viaggio nel tempo e nello spazio, un percorso, che prende le mosse dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale e dalla Shoah, per attraversare le guerre nell'ex Jugoslavia degli Anni Novanta e le contrastanti realtà afghane del XIX secolo. Un percorso che si svolge come un fil rouge de la Mémoire.
Amici, attraverso le sue narrazioni di uomini, di popoli e di nazioni in eterno cammino, radicati ad ataviche tradizioni atemporali e contemporaneamente spinti verso nuovi e sofferti orizzonti, ci coinvolge e ci affascina, mostrandoci aspetti di morte indirettamente riflessa dai suoi effetti di distruzione.
Foto formalmente impeccabili, sia quando si tratti di paesaggi impressionati con la luce sfolgorante e zenitale o in controluce ed in dissolvenza cromatica, come quinte dipinte ad acquerello, sia quando egli riprenda scene, personaggi, ritratti come scolpiti nella saturazione del colore.
Il viaggio dell’obiettivo fotografico di Giammarco Amici attraverso i colori intensi di Paesi per molti aspetti ancora sconosciuti a noi occidentali o non pienamente compresi ed esplorati nella loro complessità, accentua ed esalta il naturale confronto tra la percezione tecnica della fotografia e il suo costante inveramento nella mediazione creativa dell’interpretazione artistica; volti segnati dal tempo, occhi splendenti di luce, colori intrisi di mistero, visioni di paesaggi dell’anima ricorrono nel viaggio e nella ricerca di Amici come un’avvolgente danza di vita e di morte, da cui imparare a cogliere l’invito a fermarsi, a sanare la fugacità dello sguardo nella dilatazione dell’osservazione, nel prolungamento della parola sino al compimento della riflessione. Queste immagini di una vita per molti aspetti arcaica e atemporale rispetto all’occidentale fuga ossessiva nel tempo, ribaltano le quotidiane e artefatte cronache giornalistiche di questi mondi lontani e ci offrono motivi per ritrovarvi originari e comuni archetipi dell’esistenza umana.
Un viaggio nella Storia ma anche un percorso interiore attraverso realtà sconvolgenti per giungere ad un'autocoscienza etica e sociale, donandoci foto che vanno ben oltre quelle di un semplice reportage, arrivando a bloccare nello scatto l'anima di un popolo, scatto che nell'immaginario collettivo diverrà icona, proprio come è già accaduto per il grande statunitense Steve McCurry.
Alcune foto, in un algido, austero e perfetto bianco/nero, ci documentano - silenti, senza enfasi, nella loro agghiacciante realtà - il campo di morte di Dachau, un omaggio all'Olocausto tutto e al dovere supremo della memoria. Si osservi particolarmente Il lavoro rende liberi (l'ironico e tristemente famoso benvenuto che accoglieva gli internati nei campi e conosciuto, nel suo tragico significato, solo dagli aguzzini nazisti), recentemente segnalato dalla giuria per il settore della fotografia nella mostra internazionale d'arte Il segno della Memoria, organizzata dal Comune di Firenze in occasione del Giorno della memoria del 2014. Poi, il colore conduce alla contemporaneità: una foto in evanescenti colori pastello (grigi, vedi, celesti) si accende solamente nel vaso di tulipani che segna la memoria (Non Dimentichiamoli). Con Libertà, concetto non imprigionabile (un piccolo uccello che si è posato sui moderni reticolati d'acciaio in Afganistan) il messaggio si fa universale ed impalpabilmente poetico.
Poi, i riflessi delle atrocità della guerra in Bosnia e Kosovo. Scorci in lapidaria fuga prospettica dei nomi dei morti durante il genocidio del 1995 posti nel sacrario di Sebrenica, il giardino di una casa con il cimitero dei dimenticati, le case mitragliate durante il passaggio dei Serbi, il campo minato sotto la neve veduto nell'inquadratura del filo spinato a ridosso di abitazioni a Sarajevo; le tombe accanto alle panchine nel parco comunale sempre a Sarajevo, che ci rivela la naturalità e la consuetudine alla morte accanto alla vita, una vita che prepotente, al di là dell'emozione prima, prende il sopravvento sulla morte, ma senza accenti di pragmatico cinismo come un occidentale non abituato a tutto ciò potrebbe pensare. E ancora la ricerca disperata di sopravvivere e di trarre da tutto un sostentamento, come simboleggia l'immagine dei proiettili riciclati, incisi con tecniche artistiche antiche ed artigianali e riproposti come penne souvenir, in una foto anche esteticamente di grande suggestione, con la raggiera di proiettili di scrittura come in un rinnovato caricatore non più di morte. Colline di steli in scenari quasi da poetico paesaggismo tardo-ottocentesco, ma che sono reali e concrete meditazioni sulle sciagure umane: in agghiaccianti silenzi esistenziali, cimiteri musulmani, disseminati un po' ovunque nella città bosniaca, che, tra il 1992 ed il 1995, ha sofferto più di tre anni di duro assedio da parte delle forze serbe. Su tutto, però, nuovamente, l'affermarsi della vita, dell'amore, della speranza, della pace: il tenero bacio di due giovani nonostante la guerra, le moschee illuminate di notte che fanno svettare i propri sacrali minareti nell'oscurità della notte, della notte dell'anima.
Al di là dei paesaggi afghani, sono i suoi ritratti ad affascinarci e a coinvolgerci, ritratti dove spesso emergono grandi occhi pieni di magnetismo, luci cupe oppure trasparenti e cristalline. Così, i suoi ricordi divengono il commento più pertinente e pregnante a quel viaggio di immagini che ci conduce da questi incantati paesaggi alla crudezza dell'indifesa e corrucciata bambina cresciuta innanzi tempo, privata del suo tempo dei giochi, già - alla sua tenera età - dal capo coperto, in mezzo alle armi che la proteggono, in un dilaniante contrasto tra pace e guerra, tra giustizia ed ingiustizia, fra sfruttamento e cooperazione. Proprio questa immagine-icona della presenza non belligerante dell'Italia in Afghanistan, già copertina del volume di Amici Afganistan: un paese in guerra con se stesso del 2013, è stata inclusa nella Triennale di Roma di questo 2014. Una rilettura antologica che diviene storia pacata e riflessa, atto riflettuto di denuncia, emozione ai più alti livelli della cultura e dello spirito umano. Ecco allora bambini indifesi e bambine troppo presto divenute donne, fra vesti come drappi dipinti in un quadro del Rinascimento e verso la solitudine dei quali si dirige materna una mano di anziana; statuarie giovani avvolte in celesti burqa come cariatidi greche oppure l'insolita (per noi occidentali) realtà di una famigliola tradizionale in motocicletta sullo sfondo di reticolati e fili spinati.
Infine, alcune immagini latinoamericane - di Cuba (solitari musicisti, artisti locali, tramonti luminosi) - e africane - dello Zanzibar e della Tanzania (pescatori in controluce e uomini masai): paradisi incontaminati e luoghi di felicità nell'immaginario collettivo poetico occidentale, ma che, nella loro aura dorata, celano sottilmente solitudini e povertà, miserie e ingiustizie, pur avvolte in un rutilante gioco cromatico di un paesaggismo esotico che non chiude - nonostante tutto - la speranza nella luce in giustizia di un Sole che foscolianamente continua a risplendere sul dolore e sulle sciagure umane.
Giampaolo Trotta

Gianmarco Amici - "Afghanistan"






NICOLE GUILLON


"Invitation au voyage"
ovvero un viaggio poetico ed interiore verso l’illuminazione della Bellezza che vince la Notte dell'iniquità e della morte
"They say Ideal Beauty cannot enter
The house of anguish. On the threshold stands
An alien Image with the shackled hands,
Called the Greek Slave: as if the sculptor meant her
(That passionless perfection which he lent her,
Shadowed, not darkened, where the sill expands)
To, so, confront men's crimes in different lands
With man's ideal sense. Pierce to the centre,
Art's fiery finger, and break up erelong
The serfdom of this world! Appeal, fair stone,
From God's pure heights of beauty against man's wrong!
Catch, up in thy divine face, not alone
East griefs but West and strike and shame the strong,
By thunders of white silence overthrown!"
Elizabeth Barrett Browning (1806-1861),
Hiram Powers' Greek Slave[1]




[1] "Si dice che la Bellezza Ideale non possa entrare nella
casa d'angoscia. Una figura straniera sta sulla soglia,
con le mani incatenate, la Schiava greca:
come se lo scultore eleggesse lei
(quella perfezione impassibile che egli le diede,
in ombra, non oscurata, là dove la soglia si dilata)
per confrontare, così, i crimini degli uomini nei differenti Paesi
con il senso dell'ideale insito nell'uomo. Penetra nell'intimo,
infuocato dito dell'arte, e spezza presto
la schiavitù servile di questo mondo! Fai appello, oh bella pietra,
dalla pura sommità della bellezza di Dio contro l'errore malvagio dell'uomo!
Cattura, nel tuo volto divino,
i dolori sia dell'Oriente sia dell'Occidente e colpisci ed svergogna i potenti,
abbattuti da tuoni di bianco silenzio!"
Elizabeth Barrett Browning (1806-1861), La schiava greca di Hiram Powers.
Hiram Powers (1805-1873) fu uno scultore neoclassico nordamericano che, come la Barrett Browning, visse a Firenze, dove nel 1843 scolpì la statua ricordata nel sonetto, poi replicata varie volte (una è conservata alla "Yale University Art Gallery" di New Haven, Connecticut, un'altra copia, del 1847, al Newark Museum, New Jersey): al di là della schiava cristiana (si veda il simbolico ciondolo della croce tenuto nella mano destra) fatta prigioniera dei musulmani turchi, rappresenta l'archetipo di Venere classica (chiaro il riferimento alla Venere Capitolina e alla Venere dei Medici, a loro volta desunte dalla perduta Afrodite cnidia di Prassitele, ma anche debitrice della Venere italica di Antonio Canova, finita nel 1812 ed ammirata da Ugo Foscolo), ma veduta in catene, come, appunto, una schiava greca, cioè la Bellezza che salva imprigionata dal cinico pragmatismo del Male. Da sempre scultura simbolica che anela alla libertà, negli Stati Uniti gli abolizionisti ne fecero un vessillo, soprannominandola la schiava virginiana, come oppressa dagli schiavisti in qualche piantagione del Sud. In seguito, divenne anche un simbolo per le femministe che la celebrarono elevandola a protagonista dei diritti civili calpestati dalla brutalità maschilista. Un'altra copia della statua di Powers, di minori dimensioni (cm 60), è recentemente comparsa sul mercato (Pandolfini Casa d'Aste, Firenze, catalogo dell'asta del 15 aprile 2014, n. 2.1, lotto n. 166, p.137), ma con dizione imprecisa ("Scuola del sec. XIX, Allegoria della Pazienza").

L’opera esposta nel Complesso Monumentale dell'Ex Monastero dei Benedettini a Monreale della pittrice e fotografa francese Nicole Guillon, nell'ambito della mostra "Finché il Sole...". Bellezza e dolore umano, sorprende per la sua alta qualità. Osservare le sue opere è seguire un percorso fotografico-pittorico alle sorgenti del colore e della Luce. Le sue istantanee sono realiste, eppure le sue fotografie vogliono essere, comunque e sempre, impressioni interiori che arrivano al cuore delle emozioni. La fotografa immortala l’istante irripetibile così come mai più si verificherà. I suoi paesaggi ed i particolari rimandano ad equilibri interiori ed universali, dove tutto parla della vastità del Cosmo nel quale vive e si dibatte l'uomo. Un voyage intérieur attraverso realtà e paesi vicini e lontani. Mediante i suoi paesaggi - cieli, mari e fiumi, riflessi e nebbie, ponti e muri - le sue narrazioni di uomini, di donne e di popoli dell'Asia e dell'Africa ci rendono partecipi di una realtà palpitante e mutevole come l’attimo. Fotografie che ci restituiscono scenari diversi e non scontati rispetto a quelli proposti dai mass media, attraverso momenti semplici e coinvolgenti, avvolti di un’ineffabile sacralità anche nell’atto più comunemente quotidiano.
Figure di bambini che certamente hanno sofferto e soffrono la fame, vecchi che hanno avuto una vita grama, tanto dolore e sofferenza dell'esistenza umana e morte rimangono sottesi alle foto della Guillon, ma mai vi è un senso di ripiegamento su noi stessi, un cercare nel passato le motivazioni 'analitiche' e le cause di questo lato dolore per individuare colpee colpevoli (come colonialismo ed imperialismo), uno sterile J'accuse. Nella ferita dei corpi e dell'anima La Guillon intravede un'imperdibile occasione per giungere ad una conoscenza profonda del Sé, come se solamente attraverso quelle ferite anche di morte si potesse per quei Popoli giungere ad un'autentica autocoscienza che ne disveli l'insita grandezza della loro vita e della loro cultura.
Nel tempo della globalizzazione e delle virtuali second-life, Nicole Guillon intraprende un esodo autentico con un piglio ed un passo originario, quasi rinnovando l’epica esploratrice dei viaggi nelle terre mai viste prima, che oggi, più che condurla lontano a cercare segni di altri insediamenti umani, la sospinge nella profondità archetipale delle fluide forme e dei lucenti colori, in uno spazio senza confini e in un tempo senza cronologia ma che non è mai favola utopica o alienante realtà virtuale.
Le fotografie di Nicole vogliono essere, sì, impressioni oniriche, ma dove per onirico non deve intendersi la peculiarità del sogno favoloso e irreale, romantico e nostalgico, distaccato dalla realtà. Onirico nel senso di mitico, nell’accezione etimologica del termine, vale a dire di visione simbolica quasi profetica o illuminata del racconto umano.
L’istante che viene immortalato dalla Guillon è una sorta di comunione-fusione fra l’autrice e il Cosmo che la circonda, un’unione non tanto da lei intesa in una rinnovata accezione umanistica con la centralità superiore dell'Uomo rispetto alla Natura che lo completa e solamente lo attornia, quanto in quella di un universo filosofico orientale, indistintamente legato quasi inconsciamente alla dimensione Zen. Così, quei paesaggi e quei particolari di paesaggi rimandano ad equilibri interiori ed universali, dove tutto parla della vastità del Cosmo e della grandiosa presenza dell’uomo - nel bene e nel male - dentro il mondo (pur intuendoli nei particolari della natura o nella piccolezza di infiniti e reiterati gesti umani quotidiani).
Alle origini di tutto, all'inizio del suo voyage, Nicole Guillon ha creato una sorta di antefatto, una prefazione di silente meditazione, che diviene monito profetico per non infrangere quel misterioso equilibrio universale del quale si è detto: una memoria per non cadere nell'orgoglio superbo della superiorità della specie umana o di una specifica razza rispetto alle alte entità componenti il Tutto: la tentazione oscura del razzismo e della pulizia etnica. È il ricordo del genocidio ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale, la macchia infamante della Shoah, posta all'inizio del percorso di questa mostra siciliana, nella parete di sinistra della Sala del Monrealese, entrando. D’altra parte, l’essere umano si costruisce sulla fragilità della memoria, senza la quale è come un albero senza radici: la memoria - Zakhòr, un imperativo categorico per la cultura ebraica - che deve profondamente penetrare nella coscienza e conficcarsi nel cuore, come la radice del termine ebraico significa. Memoria e oblio: due opposti tra i quali si dibatte tutta la storia umana. Si tratta di ampi pannelli in "forex" (già esposti alla mostra internazionale Il segno della Memoria svoltasi a Firenze nel gennaio di questo 2014) interamente ricoperti di foto in bianco e grigio, immagini che ritraggono scorci e particolari della "Fondation de la Mémoire de la Shoah" a Parigi, assemblate come un vasto collage, nel quale, sul fragore del mare infinito - dirompente in un calmo silenzio - dei nomi dei deportati trucidati nei campi di sterminio nazisti ("thunders of white silence", "tuoni di bianco silenzio", per citare E. Barrett Browning) sono gestualmente inserite a pennarello bianco sue riflessioni e citazioni sull'Olocausto. Al di sopra delle foto, dove emerge a caratteri cubitali "Zakhòr", vi sono anche alcuni suoi quadri astratti, come tasselli incandescenti della memoria stessa: tele informali e liriche, dai toni latamente epici, dove il colore ed il bronzo apparentemente eterno - che si liquefa in scaglie o scorie senza più apparente forma - ci fanno intuire indefinite e mutevoli "forme" dello spirito. La mistica della memoria vera - paiono suggerire i lacerti metallici di Nicole - non sta nei monumenti grandiosi ma nei nomi di quelle vittime che continueranno ad esistere finché qualcuno li ricorderà: le lettere che compongono i loro nomi divengono così, come direbbe Orazio, una memoria più duratura del bronzo ("aere perennius"). In altre parole, la memoria di quei tragici eventi non deve esaurirsi nella sola celebrazione, ma penetrare nell’intimo di ognuno di noi. Le piccole tele della Guillon, pertanto, insieme alle foto di questo fondale contestualizzante della sua istallazione, sono viatici semantici e semiologici del ricordo, della presa d'atto della Storia nelle sue variegate componenti psicologiche di coloro che tale Storia hanno fatto. Il presupposto etico al moderno voyage iniziatico di Nicole lungo le strade del Mondo.
La mostra della Guillon non rappresenta né vuole essere un reportage esaustivo, né un semplice momento di sensibilizzazione sul dramma della povertà e della conseguente elevata mortalità in Africa o in Oriente, ma una delicata interpretazione, in chiave artistica e di donna, ed una riflessione su alcuni aspetti della cultura di Popoli di antiche tradizioni, astraendone considerazioni sottese più universali. Una lettura che tiene presente la profondità della storia e l’estemporanea irrazionalità delle sensazioni, la durezza del vivere gramo e l’ascetica ed imperturbabile ricerca di una Luce assoluta, i sorrisi che nascono sui volti dei bambini, l'atarassia che segna quelli dei vecchi. Ritratti dove sempre emergono i connotati psicologici non solo dei singoli individui, ma di tutto un Popolo.
Come fantasmi, dopo la visione delle sue foto, ci affiorano alla mente le persone che ha bloccato nel suo scatto, che avevano in se stessi la speranza di un sogno sgargiante come i colori delle loro vesti e dei loro tatuaggi. Sogni spesso infranti, ma non calpestati dal destino duro di un karma accettato in tutta la sua potenza, ma dalla mano spietata di un regime dittatoriale, settario, o da equilibri internazionali che vogliono soggiogare interi Popoli alla ragione del mercato, pur senza - ripetiamo - alcun senso di rancore o di inutile odio. Quasi un’affascinante ed impeccabile parabola postmoderna, tra Zen e Mille e una notte.
Indonesia, Mali, Nepal, Birmania, Tibet, India, Oceania, Guinea, Benin, Sahara sono solamente alcune delle tappe del suo variegato viaggio. Tutta una serie di ritratti di bambini, donne ed anziani, immortalati in pieno sole o in controluce nei loro abiti talora sgargianti: sorrisi di speranza in contrasto con volti solcati da rughe profonde che ci fanno intuire il trascorrere del tempo in una vita provata dagli eventi.
Molte immagini riprendono il particolare di mani di uomini e di donne, mani stanche ed anziane o alacri e giovanili nell'atto operoso, incrostate di farina e di terra, che raccontano storie come e ancor più degli stessi volti, mani che talora sembrano quasi fondersi in simbiosi metamorfica con la Madre Terra, con quell'argilla di muri che stanno costruendo, muri segnati, graffiti da simboli tribali atavici, per noi misteriosamente incomprensibili.
In particolare, i suoi paradigmatici e quasi astratti deserti africani non sono dimensioni esistenzialiste, disincantate e pessimistiche dello spirito, luoghi dell'aridità senza vita, ma luminosi equilibri di rapporti in sintonia tra l’Uomo ed il Mondo, la Natura, l’Universo. Un viaggio interiore privo di drammatizzazioni filosofiche occidentali e proiettato nella luce calma del Tutto e nella compenetrazione tra Uomo e Natura, dove il deserto è sentito e vissuto come l’anima vibrante e palpitante della Terra, quel deserto che sempre è stato topos dell’interiorità, energia dell’essere cosmico. Pacificazione, quindi, tra Natura ed Uomo, veduti come facce (di equivalente valore) di un Assoluto nel quale l’anima del Mondo e quella singola umana si perdono e confondono, nel mare di sabbia del deserto sahariano, mosso, accarezzato e plasmato in eterno dal vento. L’obiettivo fotografico sembra qui cogliere istantanee di un mondo che ancora non c’è, di un tempo al suo principio quando tutto ancora potrà accadere, in profonda simbiosi con quel labirinto dell’animo umano in cui la libertà delle scelte è il crocevia del possibile.
In dinamico contrappunto con le elegantissime immagini fotografiche e a loro reciproco completamento sono le sue tele dipinte. Trait d'union tra le foto di uomini e di donne e i suoi quadri - informali e luminosi come dipinti di Antonio Corpora - sono le immagini fortemente cromatiche e fluidamente magmatiche ed eteree di cieli, nubi e tramonti, colti con l'obiettivo fotografico alle più svariate latitudini del Mondo (dall'Indonesia alla Birmania). L’origine pittorica della sua ricerca artistica le ha consentito di trovare, mediante un’essenziale gestualità composta da segni, forme energetiche che mutano nelle stesure del colore (rossi, neri, grigi, bianchi, azzurri) così come cambiano gli uomini dal concepimento alla morte. L'energia non attraversa lo spazio ma lo costituisce. Quindi è il segno gestuale, la fiammata guizzante cromatica che si trasformano in un codice comunicativo evidenziando la propria entità vitale. La tela filtra le forme che si costituiscono come proiezioni immaginarie, diventando simboliche nel momento in cui intercettano flussi energetici. Nel buio Nicole ritrova la luce, scioglie il dolore della guerra e della morte risalendo al suo inizio cosmogonico. Il morire ed il rinascere, il perdersi ed il ritrovarsi permette di conseguire la meta.
Quadri astratti ed informali, ma di un informale lirico, zone di sensibilità pittorica immateriale dalla dimensione psicologica d’una spazialità d’allusione cosmica, che si richiamano e descrivono ancora una volta cieli e paesaggi interiori, accenni di orizzonti urbani, una natura sconfinata, incontaminata e meravigliosamente mutevole, dai risvolti, per così dire, vicini al concetto "Satori": nella pratica dello Zen, l'esperienza del risveglio spirituale, nel quale non vi è più alcuna differenza tra colui che ‘percepisce’ e l'oggetto della percezione, momento in cui l'intera esperienza singola e personale e quella cosmica si fondono in un unico istante. Obiettivo dello Zen è proprio pervenire al Satori, l'illuminazione che porta ad un più alto livello di coscienza, momento in cui l'intera esperienza singola e personale e quella cosmica sono proiettate e si fondono in un unico istante. Ciò comporta un annullarsi cosciente del soggetto, non derivante da una rinuncia al mondo esterno, ma dalla partecipazione ad esso tramite un atto assoluto. Tale processo è ben espresso dalla forma poetica dell'haiku, una poesia dai toni semplici che trae la sua forza dalle suggestioni della natura e delle sue stagioni. L'haiku presenta una sintesi di pensiero e d'immagine e la mancanza di nessi evidenti tra i versi crea un ‘vuoto’ ricco di suggestioni, stato germinale di tutte le cose, condizione di ogni possibilità, contenitore del Tutto. Così, i quadri della Guillon, una sorta di haiku pittorico, rappresentano l’annullamento della pittura figurativa, un ‘vuoto’ pregno e dinamico. I suoi quadri astratti si riferiscono ad un contesto teoretico/artistico e ad uno filosofico/metafisico: l'opera d'arte pare consistere nel combinarli insieme, facendoci percepire e capire un'idea astratta. Non si tratta di azzeramento della pittura in attesa di una nuova fonte di ispirazione, bensì in quel ‘vuoto’ è contenuto il ‘tutto’. Le sue tele hanno un linguaggio segnico, dove l’incisione segnica assurge talora al valore etimologico del termine.
Come mandala, i quadri-viaggi iniziatici della Guillon hanno un’aspirazione all'ieratica, statica e atarassica totalità illuminata e ordinata, ma il frantumarsi naturalistico - che, con il suo richiamo ad un lato paesaggismo, sgretola l’armonia astratta centralizzata - introduce una concezione dinamica di vento generatore, di forza distruttrice che dà la vita, cioè di "ànemos", dove si recuperano contestualmente anche processi spirituali e culturali occidentali e mediorientali di ricerca della Luce, dalle simbologie ebraiche contenute nella Torah al Cristianesimo medioevale mistico, fin'anche - in certo qual modo - alla chiarezza cartesiana e poi illuministica, alla vibrazione luminosa ed intimistica dell’istante irripetibile dipinto dall’Impressionismo. Talora i simboli e i colori desunti da culture africane divengono apporti materici tridimensionali, vere e proprie tessere musive di una linea-percorso simbolica, filo conduttore di paesaggi semiologici dall'astrazione laicamente sacrale, come le distese di mosaici che impaginavano le pareti delle cattedrali arabo-normanne siciliane. Nella grande sala espositiva del complesso benedettino di Monreale, impreziosita dalla pittura murale nella volta raffigurante l'Arcangelo Gabriele che suona la tromba - voluta dall'arcivescovo di Monreale e abate del monastero cardinal Cosimo De Torres (1584-1642) nel 1641 e comunemente attribuita a Piero Novelli detto il Monrealese (1603-1647) - trovano spazio opere pittoriche come tasselli di grande e di piccola dimensione, che segnano il percorso intorno all'Uomo negli spazi definiti dalle finestre e dall'imposta dell'arco della volta a padiglione unghiato. Racconti pregnanti di emozioni, film musivo e mosaicale. Intorno ai grandi quadri la Guillon ha voluto inserire foto di diverse dimensioni per ottenere una composizione non rigida, cercando di dare una logica al racconto-mythos dell'Uomo che questa galleria di colori e di immagini propone. Ogni capitolo di tale racconto, cioè ogni spazio, è definito dalle composizione architettonica della sala stessa, mostrando, alternativamente, immagini dell'Asia e dell'Africa. Così, le cromie delle tele si sposano e costituiscono un continuum con gli arancioni ed i bruni africani, caldi e a volte violenti, oppure con i grigi dolci, eterei ed astratti dell' l'Asia. Infine sulla parete di fondo della sala, che si vedrà appena entrati, a pendant con la parete diametralmente opposta contenente lo Zakhor, sono collocati due quadri, Brazil e Notte nel deserto, simili nelle forme e nei colori, circondati da foto di cieli mutevoli come l'animo umano. Il giuoco effimero - formale e cromatico - delle nubi che fa intuire proiezioni e miraggi di immagini scaturite dal proprio inconscio come in un transfert ha in tal modo un riscontro nei neri plumbei di notti senza luna o nei tramonti di fuoco tropicali dove ci pare di seguire la rotta segnata da un'inesistente (o esistente solamente in noi e non nella tela) luminosità ipnotica di un australe Cruzeiro do Sul.
Nell'oscurità delle ingiustizie, delle guerre, delle persecuzioni, degli stermini e della morte, nel buio profondo della notte dell'anima, nella tempesta delle follie umane Nicole Guillon si ostina caparbiamente a trovare un porto calmo e sicuro, il faro radioso costituito dalla Bellezza, dalla cultura, dalla memoria che salvano nonostante siano spesso imprigionate, come l'Afrodite in catene di Powers, finché il Sole foscoliano continuerà a risplendere sulle sciagure umane.
Un viaggio nelle geografie ineffabili dell’Arte e dello Spirito per comprendere l’Uomo e la sua presenza mediatrice nel Cosmo, là dove l’Arte, appunto, diviene testimonianza, vibrante messaggio, ‘illuminazione’ universale, lirica pura. Monreale, in Sicilia, al centro del Mediterraneo, crocevia di popoli, crogiuolo di arti di differenti origini e di fedi diverse, ed il Complesso Monumentale dell'Ex Monastero dei Benedettini sono la sede ideale per questa mostra che, nel dialogo visivo e concettuale, vuol essere un incontro di vie spirituali diversificate sotto l’egida, appunto, della cultura e dell’arte.
Giampaolo Trotta



Nicole Guillon - "Brazil"




INAUGURAZIONE MOSTRA





















ESPOSIZIONE OPERE D'ARTE DI 

NICOLE GUILLON































ESPOSIZIONE OPERE D'ARTE DI

GIAMMARCO AMICI