Monreale nella cultura siciliana del '700 di G. Schirò


MONREALE 

NELLA CULTURA SICILIANA DEL ‘700

a cura di Giuseppe Schirò



Una tradizione culturale siciliana si era sempre mantenuta anche durante il dominio spagnolo. Le lettere, la storiografia, gli studi giuridici avevano avuto sempre dei validi cultori. Ma mentre in Italia e in Europa nuovi movimenti e nuove correnti erano cominciati a diffondersi nel campo letterario, filosofico e scientifico, la cultura siciliana era rimasta abbarbicata alle sue tradizioni: gli studi di storia e di diritto, che erano i più fiorenti, non raggiungevano grandi altezze, limitandosi alla ricerca erudita delle fonti e alla difesa documentata dei privilegi. La vita sociale era ancora imperniata sul sistema feudale e ciò si rifletteva anche nel campo della cultura che, per questo, non ampliava i suoi orizzonti e tendeva a difendere le vecchie posizioni sociali. Erano molto diffuse le accademie, adunanza di dotti in casa di mecenati, allo scopo di promuovere gli studi in discussioni comuni, secondo l’indirizzo che ogni accademia si dava. Dopo i primi difficili decenni del ‘700, turbati dai cambiamenti di governo e dalle incertezze politiche, il governo borbonico si consolida. L’impulso rinnovatore che ogni nuovo governo, appena arrivato, si sforzava di imprimere alla vita siciliana, può finalmente trovare successo e far uscire la Sicilia dal lungo letargo e dall’isolamento in cui da un secolo e mezzo si trovava immersa. Il risveglio della cultura siciliana comincia a notarsi verso la metà del secolo. Le nuove condizioni politiche consentono di intensificare i rapporti con la cultura italiana ed europea. Le accademie allacciano rapporti tra di loro e con quelle che si trovavano in Italia; dotti siciliani fanno parte di varie accademie italiane e straniere e viceversa. Intense sono anche le corrispondenze culturali tra i più colti siciliani ed eruditi e scienziati italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Giovani siciliani vanno a perfezionare i loro studi all’estero, specie in Inghilterra. La regia accademia di Palermo inviava i suoi migliori professori a perfezionarsi nei centri più progrediti d’Italia, di Francia e d’Inghilterra. Questo soffio di risveglio porta con sé nuove idee. Si diffonde la cultura francese, penetra l’illuminismo e circolano le opere d’arte di Locke, di Hume, di Hobbes. La nuova situazione è notata anche da italiani e stranieri. Tuttavia manca una profonda comprensione ed assimilazione dello spirito dell’illuminismo, che avrebbe potuto portare una trasformazione o forse un capovolgimento delle vecchie istituzioni feudali, su cui si basava la vita siciliana.
Dopo il Venero, per un complesso di circostanze caratteristiche di Monreale, gli studi nel seminario si sviluppano come non mai. Le nuove idee vengono recepite con entusiasmo; si forma un gruppo di uomini volenterosi e colti che preparano l’epoca d’oro del Testa. Ricordo Emauele Cangiamila, autore di un’opera scientifica che raggiunge grande celebrità ed è tradotta in varie lingue, l’<Embriologia sacra>; Giogio Guzzetta (1682-1756) di Piana degli Albanesi, che svolge un’intensa attività, sia in favore della sua città natale, dove fonda l’oratorio dei filippini di rito greco e il collegio di Maria, sia in favore della popolazione di rito greco in Sicilia. Nel 1734, fonda a Palermo un seminario per i chierici di rito greco. In tutta la Sicilia era ammirato per le sue virtù e la sua dottrina. Vescovi insigni che ebbero una fama pari a quella che saprà conquistarsi il Testa a Monreale, come il Valguarnera a Cefalù e il Gioeni ad Agrigento, ricorrevano ai suoi consigli per riformare i loro seminari e ridestare la vita religiosa e gli studi nella loro diocesi. Ancora Alberto Greco Carlino (1697-1763), monrealese, amico del Guzzetta e suo collaboratore, si dedica in particolare alla fondazione dei collegi  di Maria.  Quello che istituisce a Monreale è come la centrale da cui tanti altri si diffondono, a Cefalù, ad Agrigento, in tutta la Sicilia. Antonino Diliberto, monrealese, insigne cultore della poesia religiosa dialettale, pubblica le sue poesie sotto il nome anagrammatico di Binirittu Anneleru.
Nel 1754, all’età di 50 anni, l’arcivescovo Francesco Testa, fa il suo solenne ingresso in Monreale. 
Era canonico della cattedrale di Palermo e si era distinto con una pubblicazione sui capitoli del regno di Sicilia. Era un uomo di punta per i suoi tempi, un organizzatore ed un suscitatore di energie nuove. Subito egli si occupa degli studi nel seminario. Come rettore egli chiama Vincenzo Pupella, uomo di grande valore e che sa comprendere in pieno le grandi idee del Testa. Sotto la sua guida, il seminario diviene angusto per contenere il numero degli alunni che affluisce. Il Testa provvede col far costruire due altri grandi dormitori, uno sulla cappella e l’altro sulla biblioteca. Ma poiché anche questo spazio è insufficiente, il Testa, adibendo lo stesso palazzo arcivescovile e l’area soprastante, fonda due altri istituti: l’episcopio accoglie giovani di qualsiasi condizione che si avviavano al sacerdozio, il convitto ospita giovani di nobile famiglia, distinti in due camere: la camera degli ecclesiastici per quelli che si avviavano al sacerdozio e la camera dei nobili laici, come convittori. Dei due istituti era rettore il Murena, scolopio piemontese. I giovani dell’episcopio e del convitto dei nobili non frequentavano le scuole dei gesuiti, come i seminaristi, ma avevano scuole proprie, nel palazzo arcivescovile. Il Testa si circonda di dotti monrealesi, come Giuseppe Pappalardo, teologo, Gaetano Romano, giurista, Giovanni Pampalone erudito e conoscitore di varie lingue<studio raro in quei tempi>. Ne chiama anche da fuori come Saverio Romano di Palermo, discepolo di Nicolò Cento, per insegnare Geometria e lingua greca. Il Romano era anche un buon medico. Pure da Palermo è chiamato per insegnare diritto naturale, canonico e civile il celebre Vincenzo Fleres, anch’egli seguace del Cento. Tra le scuole arcivescovili e quelle dei gesuiti si accende una vera e propria gara. Questa situazione si mantiene senza equilibri per oltre un decennio. Gli studi in Monreale erano cosi fiorenti che il seminario, secondo l’affermazione dello Scinà., diviene la scuola non solo della diocesi ma di tutta la Sicilia. Per lo sviluppo assunto dalla filosofia e dalle lettere, Monreale è detta la cittadella della metafisica, la rocca inespugnabile della latinità e l’<Atene> della Sicilia.
Tali affermazioni sono state confortate da più recenti e approfonditi studi. Giulio Natali nella Storia Letteraria d’Italia, non esita ad affermare che il seminario di Monreale <era allora il principale  centro di cultura della Sicilia>. L’equilibrio è turbato nel 1767 quando i Gesuiti sono espulsi dalla Sicilia e devono lasciare anche Monreale. Ma il Testa corre subito ai ripari. Gli alunni del seminario e i giovani monralesi sono fatti affluire nelle scuole arcivescovili. Tra gli insegnanti: Vincenzo Miceli il filosofo, per il diritto naturale, civile e canonico; Ciro Terzo, per la teologia dommatica; Pietro Sardisco, per la teologia morale; Nicolò Lipari, per l’umanità; il Murena per la retorica e l’eloquenza latina; Saverio Romano per la geometria e greco; Secondo Sinesio per l’eloquenza e la poesia italiana. Il Testa era sempre a capo, come animatore di questo movimento di studi, non lesinando i mezzi e dando volentieri ospitalità agli insegnamenti nel suo palazzo, trasformato in un vero cenacolo di dotti e di sapienti. L’impulso dato dal Testa agli studi era un fenomeno che rientrava nella più vasta corrente di rinnovamento generale della cultura siciliana. Patrimonio comune dei dotti che lo circondavano era una profonda formazione umanistica, la quale veniva inculcata  a tutti gli alunni. Ma, salva questa base, possiamo distinguere due indirizzi, quello letterario e quello filosofico.  
Caposcuola dell’indirizzo letterario era il Murena. Questi, nel suo insegnamento <non perdea tempo con discorsi teorici e con ispiegare a lungo i precetti retorici e con speculazioni astratte…inutili per la gioventù… Ma dati pochi e brevi precetti, che alle volte faceva scrivere, alcune volte leggere in qualche libro, si applicava a fare intendere ai giovani profondamente gli autori classici. Mentre facea spiegare un autore, tanto parlava, tanto rifletteva, ad ogni passo, tanto s’infocava e s’accendea dello  spirito dell’autore medesimo, che i discepoli ne vedevano tutte le bellezze e s’accendeano anch’essi del medesimo spirito e si abituavano facilmente ad imitare i classici ed a scrivere in prosa e in versi con proprietà e buon gusto>; <… i ragazzi di tenera età spiegano francamente il Cornelio, il Cesare, il Tibullo e le cose più facili di Cicerone, di Catullo e di Virgilio>; non solo capiscono, ma imitano i classici latini ed italiani, scrivendo lettere, prose, e poesie… con proprietà di espressioni, e con principi di buon gusto>. Cosi a Monreale si formano eccellenti latinisti, perfetti imitatori del migliore stile classico cui potrebbe forse rimproverarsi la mancanza di originalità, ma non la padronanza dello lingua e dello stile.
E’ utile premettere che il ‘700 intende la filosofia con un significato alquanto diverso da quello che oggi lo si dà. La speculazione e lo studio delle scienze erano un’unica cosa, come i presocratici. Filosofo era chi aveva la conoscenza più vasta di molte materie o di tutto lo scibile di allora, della dialettica, della metafisica, della fisica, matematica, storia naturale, scienza politica ed astronomica. In seguito al decadere della scolastica si erano diffuse le idee cartesiane, leibniziane e l’empirismo del Locke. I centri culturali in Italia erano Milano e Napoli. Qui era il primo ministro Bernardo Tanucci, colto ed intelligente mecenate, in amichevoli rapporti col Testa per una certa affinità di idee. La corrente empirica scivola nel sensismo soprattutto ad opera del Condillac che dimora a lungo in Italia. Contro il sensismo ed il conseguente materialismo insorge Vincenzo Miceli. 
Questo giovane professore di filosofia aveva un aspetto di asceta, buono e dolce. Nato il 23 novembre 1734, aveva un ingegno robusto, ma una salute debole. Era uno di quegli uomini che il Testa aveva scoperto. Il Miceli, da sincero credente , sente profondamente l’insoddisfazione per i sistemi filosofici allora in voga: lo scetticismo da un lato e il razionalismo dall’altro gli appaiono come due gravi minacce per la religione che egli vuole difendere. Gli scolastici d’altronde, assorbiti da mille quisquilie, sembrano aver dimenticato la loro funzione. Era necessario procedere ad una nuova sistemazione delle scienze speculative, per conciliare tra loro filosofia e teologia – questione allora assai scottante – per la difesa della religione minacciata dalle sue  fondamenta.
Il Miceli ritiene che il filosofo cristiano deve trattare insieme verità naturali e soprannaturali, deve saper adoperare le stesse armi che gli avversari della religione adoperano per distruggerla. Ed ecco che, appena venticinquenne, egli è già all’opera: <Io ho dunque nell’animo di produrre un semplice ed universale sistema di tutte le scienze non solo di quelle che alla natura si appartengono, ma di quelle altre ancora che sono nel mondo soprannaturale>. Perciò egli cercherà di trarre la quintessenza degli altri sistemi filosofici per costruire il suo sistema. Come il Cartesio aveva posto il <cogito ergo sum> come principio estremo di certezza, così il Miceli fonda ogni sua argomentazione sul <principio di contraddizione>. La prima applicazione di questo principio avviene intorno all’Essere. Il Miceli ha dell’Essere un concetto <positivo> o, direi, <intensivo>, tale cioè che include l’esistere, altrimenti si avrebbe l’assurdo di un Essere che non è. Il passaggio tra ordine logico e ordine reale è superato con l’idea della <dinamicità> o della <progressione>, come diranno i suoi seguaci: l’essere tende necessariamente a realizzarsi.  Credo che il Miceli non abbia potuto definire compiutamente il suo sistema, per la sua morte relativamente prematura a 47 anni. Né d’altronde le sue opere sono ancora tutte pubblicate.



Cultura e Arte nel '600 di G. Schirò





CULTURA E ARTE NEL ‘600

a cura di Giuseppe Schirò

La tradizione culturale (iniziata nel secolo precedente con la produzione poetica di Antonio Veneziano,  l’istituzione, da parte del Torres,  del Seminario come centro di studi e di formazione tra i primi in Sicilia e  l’ ulteriore impulso ricevuto dal Venero)  continuerà ad affermarsi nel ‘600 per arrivare all’apogeo nel secolo seguente. 
Gli arcivescovi incoraggiano efficacemente le scuole. Le materie fondamentali  dell’insegnamento erano la grammatica, la retorica, le lettere e la filosofia. Saltuariamente vi erano cattedre di teologia e di diritto ecclesiastico e civile. L’istruzione era piuttosto diffusa poiché forniti di qualche istruzione dovevano essere i consiglieri municipali, i dirigenti delle numerose associazioni, i commercianti, oltre, s’intende, i professionisti. Anche le autorità comunali incoraggiano gli studi: nel 1644 il pretore e i giurati “per animare li cittadini di andari alli studi” decretano una trionfale accoglienza al giovane Francesco Sanchez che tornava con la laurea in diritto ecclesiastico e civile dall’università di Catania. Prendere la laurea a Catania è tuttavia un’eccezione. Di solito, i giovani che avevano ultimato i corsi, si presentavano al Collegio Massimo dei Gesuiti di Palermo per ricevervi la laurea in filosofia, che valeva pure per le lettere, o in teologia. Presso qualcuna delle famiglie più distinte troviamo anche una piccola biblioteca.  Antonio Novelli, morendo nella peste del 1625, lascia cento volumi per testamento. Il centro di studi più notevole continua ad essere il seminario. Il numero degli alunni raggiunge i quaranta. Fioriscono gli studi teologici. Si inizia la consuetudine di tenere dispute pubbliche, svolte alla presenza di tutti gli studenti, delle autorità e del pubblico. Il sistema era in uso anche nei circoli culturali palermitani. Si distinguono: Pietro Rincione, Giuseppe Dunzo, Giuseppe Lombardo, Giacinto Gaudesi, e i greco-albanesi Giuseppe Stassi, che morirà martire missionario, e il servo di Dio Gaspare Guzzetta, di cui parlerò in seguito. Monreale manteneva rapporti culturali intensi con la capitale ed era partecipe attivamente di tutto il movimento culturale siciliano. In emulazione col seminario, è in quest’epoca il monastero dei benedettini. Nel 1609 i benedettini Vincenzo Barralis e Vincenzo Lucerame  costituiscono la biblioteca che diverrà poi la biblioteca comunale. I benedettini di Monreale avevano stretti legami con quello di S. Martino delle Scale e con quello di S. Giovanni degli Erermiti di Palermo. Tutto l’ordine erano sotto la pressione di istanze riformatrici. Prevale una produzione letteraria a sfondo didattico e moralistico in cui abbonda una serie di “teatri”, “stelle” “soli” “trionfi” spesso privi di originalità. A Monreale si distinguono Mauro Marchesi e Paolo Catania. Con Paolo Catania, i benedettini si inseriscono brillantemente nella corrente letteraria siciliana. La sua opera “Canzoni morali sopra motti siciliani” in 7 volumi lo colloca tra i letterati  più in vista della città di Palermo, dove era assai apprezzato. Ma l’opera letteraria nella  quale esprime il meglio di sé è il “Teatro, ove si rappresentano le miserie umane … in canzoni siciliane in sesta rima”. Il suo scopo è di cantare il mondo fallace ed i suoi inganni, sollecitando insistentemente l’uomo a riflettere su quello che fu, che è e qual è il suo fine. Una sottile e profonda vena di pessimismo permea l ‘opera del Catania, pessimismo che giustifica i suoi insegnamenti  morali e l’etica cristiana. Ma egli è incapace di elevarsi allo stimolo di virtù sociali, incapace di vedere al di là dell’angusto confine politico in cui egli con tutto il suo mondo letterario viveva. I pregi migliori sono quelli letterari, come la finezza nell’uso della metafora e dei simboli del teatralismo barocco dell’epoca, la capacità di rappresentare tipi e personaggi umani e soprattutto la padronanza dell’uso del siciliano, per cui si pone tra i classici della lingua siciliana. Oltre tutto dovette essere forte l’esempio ed il richiamo dello zio Antonio Veneziano, che però supera di molto il Catania per la sua bollente ispirazione poetica. Il Catania è anche autore di una “Cronaca” inedita del monastero di Monreale che sarà proseguita da Giacomo Squiglio e poi con più elevato impegno e migliore fortuna dall’abbate  Del Giudice, dal Tarallo e dal Gravina. Anche i cappuccini nel convento fondato a Monreale  da Ludovico I Torres nel 1580, non trascurano gli studi. In questo secolo si rendono celebri  il p. Basilio e il p. Urbano, ambedue da Monreale.
Il p. Basilio fa restaurare ed ampliare il convento includendovi un noviziato con le relative scuole. P.Urbano fa costruire un locale per la biblioteca che si arricchisce di molti volumi, la maggior parte dei quali di argomento sacro. Il fervore degli studi a Monreale in quet’epoca è attestato anche da altri sempi come Vincenzo Torre (+1694) che Vito Amico dice dottissimo, medico, filosofo, astronomo, e Francesco Baronio Manfredi (1593-1654).  Questi studia nel seminario. Assunto dal Senato palermitano come segretario, diversamente che dal Catania, il Baronio, era convinto che <lo scrittore è ministro della vita civile>, si inserisce con la sua attività di scrittore e di storico nella litigiosa vita politica sicilaina di allora. Perciò scrive la <Vindicata veritas panormitana> per difendere Plaermo contro la pretesa  superiorità di Messina, e poi ancora <Della cronaca di Palermo>, <Palermo glorioso> e i quattro libri del <De maiestate panormitana> che illustra Palermo dal punto di vista naturale, storico e giuridico. Allargando poi il suo orizzonte su tutta la Sicilia, scrive il <Siculae nobilitatis amphitheatrum> in versi e prosa, poi ancora altri versi, epigrammi, la traduzione in versi latini della Celia del Veneziano, composizioni in prosa.
Francesco Baronio Manfredi, arrestato per le vicende della rivolta del maggio 1647, perché pare abbia preso parte alla congiura ordita da Francesco Vairo che lo avrebbe voluto porre a capo della Sicilia come repubblica indipendente, vien rinchiuso nella fortezza di Gaeta, dove muore.
L’arte barocca a Monreale ha esempi assai importanti e significativi. Quasi tutte le chiese esistenti vengono rinnovate secondo il nuovo gusto, come quella di S. Francesco, di S. Castrenze, dell’Odigitria,, della Madonna dell’Orto, di S. Giuseppe, il cui prospetto è tra gli esempi più interessanti del barocco a Monreale.Sopra tutti però emerge, come testimonianza tra le più importanti del barocco siciliano, la cappella del Crocifisso nel Duomo, costruita su progetto di fra Giovanni da Monreale, cappuccino. La decorazione è diretta da fra Angelo Italia gesuita, cui appartiene la decorazione di Casa professa a Palermo. Vi lavorano anche vari scultori, come Giambattista Firrera, Baldassare Pampillonia, Luzio Tudisco, Nicolò Musca, Giambattista Marino e Carlo Rutè.  

  Su un fondo lucido di smalto di Venezia, il Crocifisso con la sua genealogia, nella stessa cappella del Crocifisso. Si ripete il tema biblico della decorazione musiva del duomo





















Quando Internet non c'era: La rappresentazione del terremoto di A,Crisantino



"QUANDO INTERNET NON C'ERA: 
LA RAPPRESENTAZIONE DEL TERREMOTO"

di AMELIA CRISANTINO

Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Sicilia, ventuno paesi furono rasi al suolo. In quella drammatica circostanza gli inviati dei giornali divennero protagonisti, c'era ancora l'eco del miracolo economico ma loro denunciarono il dramma dei paesi distrutti dopo essere stati svuotati dall'emigrazione.
La mutazione antropologica provocata dai mezzi di comunicazione di massa era di là da venire, ma da Palermo la televisione mostrò il salvataggio di una bimba rimasta sotto le macerie: la sua sorte divenuta spettacolo commosse milioni di persone, sgomente dinanzi a tragedie più grandi di loro. In quel panorama di desolazione l'apparecchio televisivo dominava incontrastato con le sue immagini in bianco e nero. 
Quasi mezzo secolo dopo, la simultanea trasmissione di innumerevoli immagini e commenti ha messo all'angolo l'informazione dall'alto. Oggi giornalismo è diventato partecipato: il lettore prende parte e diventa protagonista, produce immagini, posta link, lancia commenti che possono raggiungere una vasta platea ed essere rilanciati diventando virali. Una mutazione antropologica, appunto: che rischia di lasciare su uno sfondo divenuto piatto, indifferenziato, un passato per definizione sempre lontano. Sono i rischi della più compiuta forma di democrazia oggi esistente, quella di internet. 
I giornali cartacei hanno un vantaggio rispetto alla realtà virtuale dei social: si possono rileggere. La tragedia del Belice rivive grazie alla costruzione di immagini mentali che ricreino nel lettore i sentimenti vissuti dal cronista. 

Il terremoto del Belice 
Il gennaio del 1968 fu molto freddo, la neve cadde abbondante. Il 14 del mese molti paesi di montagna erano isolati e continuava a nevicare. Era una domenica ovattata, silenziosa. Forese tranquilla, sino alle prime scosse di terremoto.
La terra si mosse alle 13,28 e alle 14,15. Due scosse leggere. Nella valle del Belice la paura, quella vera, iniziò con la terza scossa delle 16,48. Poi la notte notte fredda e buia, che diventò un incubò alle 2,33 e alle 3,01. Quando interi paesi vennero distrutti.
Rileggiamo le cronache de L'Ora e del Giornale di Sicilia, che pubblicarono pagine degne di figurare nelle antologie. 
Nell'edizione del 15, lunedì, le notizie sono ancora incomplete. Solo con L'Ora, nel pomeriggio, si ha la misura di cos'è accaduto. L'epicentro del sisma è nel triangolo Gibellina-Salaparuta-Poggio Reale, al suo interno altri paesi presto famosi: Montevago, Santa Margherita Belice, Menfi, Salemi. Da Gibellina, Mauro De Mauro scrive: <si tratta di paesi vecchi, decimati dall'emigrazione. L'abbandono e la miseria che vi regnano sono stati messi crudamente in luce da questo movimento sismico, che non ha risparmiato niente>. Gibellina è distrutta, dei suoi 7 mila abitanti chi non è riuscito a scappare è sotto le macerie. Ma la mobilitazione generale lascia sperare in soccorsi rapidi.
Il 16 gennaio, il primo bilancio sul Giornale di Sicilia è di 400 morti e mille feriti. L'incessante susseguirsi di scosse fa cadere i muri semidiroccati, la terra continua a tremare mentre si rimuovono le macerie. Sui tornanti da Alcamo verso Gibellina non c'è un metro di paesaggio tranquillo: alberi schiantati, paracarri divelti, frane, fenditure sull'asfalto. Odore di zolfo che prende alla gola, magma ribollente chissà dove nelle viscere della terra. Nella montagna si sono aperti piccoli crateri, emanano colonne di fumo nerastro e vampe solforose: "il fiato rovente dell'Apocalisse".
Da Montevago, Roberto Ciuni scrive di ruspe per aprire la strada alle squadre di soccorso, di un paese crollato addosso a chi si era svegliato dopo la prima scossa notturna e ancora fuggiva. E' una tragedia contadina, che distrugge povere case di sassi, canne e tufo. Frana anche il volto dimesso del locale, risicato boom edilizio. Sono le abitazioni degli emigranti: in blocchetti di tufo legati con "calce magra", appena una spolverata di cemento. Una tragedia dei poveri, feroce e assurda. A cui si somma il danno della disorganizzazione, subito visibile. A 12 ore dalla catastrofe a Montevago non ci sono soccorsi: "alle 4 del pomeriggio non c'è una tenda, una coperta, un cibo". Sta tornando la notte, piove.
Lo stesso giorno 16, su L'Ora, Leonardo Sciascia riprende la denuncia di Ciuni e scrive di una Sicilia "pulviscolo umano disperso al vento dall'emigrazione", un residuo, popolato da "quelli che ancora faticano con l'aratro a chiodo e col mulo. Un Paese non unificabile".
Le corrispondenze diventano denunce. Felice Chilanti scrive di gente affamata, che chiede "latte per i picciriddi". Ma da Montevago a Poggioreale, dove sono i soccorsi? Monta la rabbia, che lascia un frustrante senso di impotenza. La Sicilia del terremoto è povera, con vuote campagne lavorate in modo arcaico, "piegata su se stessa, sotto gli elicotteri che rimbombano nel cielo e se ne vanno". Continuano le scosse, alle 17,43 la terra trema per 52 interminabili secondi. Il pezzo di Marcello Cimino è un viaggio notturno nei paesi della morte, con sopravvissuti dal freddo, senza cibo: ma "non posso evitarmi di ricordare come nel passato, al solo annuncio di scioperi e occupazioni di terre, fosse fulmineo l'intervento della Celere".
Scenari apocalittici si presentano ai soccorritori, il generoso moltiplicarsi delle iniziative trova un'eco nel caos della disorganizzazione. Ognuno agisce per conto proprio, "mancano gli ordini". si crea un'ingiusta gerarchia della tragedia, Montevago è la protagonista e i è anche troppo cibo, che si spreca. In altri paesi, come a Camporeale o a Roccamena, i danni sono ingenti ma la visibilità è molto minore. Gli abitanti accampati nelle campagne sono stati dimenticati, tagliati fuori dai soccorsi: il 18 Ciuni scrive di persone terrorizzate , affamate e anche inferocite, che minacciano di marciare sino a Palermo, "gli andiamo a morire davanti agli occhi". L'indignazione trova un facile bersaglio nell'inerzia dell' Ars, che placida e sonnolenta rispetterà il calendario delle sue convocazioni. Come se niente fosse.
Sono passati tre giorni, il terremoto non finisce. Ogni paese ha un suo dramma particolare. Nella corrispondenza da Salaparuta, raggiungibile solo in elicottero, leggiamo di sopravvissuti che vagano inseguiti dalle scosse sismiche, "migliaia di fantasmi di uomini che scappano in un paesaggio infernale". Un pezzo di Sicilia è un cimitero di case, le foto a tutta pagina sono più eloquenti di mille parole. A Santa Ninfa i soccorsi ufficiali arrivano solo il 17, le strade per Santa Margherita Belice sono bloccate e i morti vengono allineati in piazza. Non ci sono certezze nemmeno sul loro numero. A Montevago, dove quintali di pane marciscono sotto la pioggia mentre a pochi chilometri si soffre la fame, i carabinieri ne contano 125. "Fame freddo e terrore" è il titolone a tutta pagina dell'Ora. Nei paesi isolati, con eroismo si cerca di strappare i sopravvissuti alle macerie di Gibellina a 48 ore dal sisma, commuove il mondo: si chiamava Eleonora Di Girolamo ma per tutti era "Cudduredda", dolcino. Diventava suo malgrado il precario simbolo della vita, a cui salvataggio avevano assistito milioni di telespettatori.
Il 24 gennaio, il bilancio ufficiale è di 216 morti e 563 feriti. E' cominciato l'esodo. il 22 gennaio la prefettura di Agrigento comunica che il 30% dei sopravvissuti è già partito. In compenso la valle del Belice si popolerà presto di imprenditori-avvoltoi, che sul terremoto sono pronti a edificare uno dei grandi affari siciliani. Ma questa è un'altra storia.

Il terremoto a Palermo
La notte dal 14 al 15 gennaio Palermo piomba nel caos, in un panico contagioso, "per i palermitani questa è stata una delle notti più drammatiche dal dopoguerra ". Le case vengono abbandonate, piazza Massimo e piazza Politeama sono subito piene di gente. Il 15, sul Giornale di Sicilia leggiamo "stamattina alle 4 l'incrocio tra via Notarbartolo e via Libertà era ingorgato da una lunghissima colonna di macchine, che fuggiva dall'ombra dei palazzi della città nuova suonando i clacson a distesa". "Ingorghi e tamponamenti favolosi", affari d'oro per bar e panellerie.
Molti incidenti, pronto soccorso che lavorano a pieno ritmo. Le macchine si dirigono verso la Favorita, verso Mondello ma anche a Bellolampo. Ovunque ci sia uno spiazzo abbastanza ampio da risulare rassicurante si improvvisano bivacchi e fuochi, che resistono per diverse notti.
Non ci sono grossi danni. Di fronte a quello che succede nei paesi, si sorride nel leggere che a Brancaccio è andata in frantumi la scorta di specchi della vetreria Mistretta. Ma il 15 la città è ferma, gli uffici vuoti, le scuole e i negozi chiusi.
Anche i processi saltano, perchè non arrivano i testi.
Martedì 16 si diffonde la voce che l'epicentro del sisma si sta spostando vero la città, che nel pomeriggio ci sarà un movimento di assestamento. Aumenta la paura. La stazione ferroviaria è presa d'assalto, si vendono biglietti come a ferragosto. E ogni volta che diminuisce la paura subito si formano lunghe code in via Lincoln, davanti alle cabine della teleselezione.
Pare incredibile, ma a Palermo le informazioni sul terremoto arrivano da fuori. Esiste un solo sismografo, appartiene al seminario dei frati minori di via del Vespro: le carte che produce vengono inviate al convento di Gibilmanna, dove risiede l'unico specialista in grado di leggerle. Siamo quindi ben lontani dal potere affrontare qualsiasi emergenza. Alla prima scossa seria saltano i pennini del sismografo e bisogna contentarsi del rettore che dichiara "il sisma è stato violentissimo e intensissimo". Su l'Ora leggiamo "stamattina il tecnico ha cercato di darsi da fare, è necessaria una molla ma non si trovava quella giusta nei negozi di Palermo".
I pilastri del II Liceo scientifico, due piani e un seminterrato in via Maggiore Toselli, risultano seriamente lesionati. E l'Ora puntualmente denuncia come questi locali "adattati" a scuola siano in affitto, il fortunato proprietario è il costruttore "ufficiale" delle scuole di Palermo.
Non ci sono crolli "neanche nei rioni decrepiti", un esperto spiega che il movimento tellurico è assorbito dai calcari compatti che formano il sottosuolo palermitano. Ma il caos non accenna a diminuire. La stampa sottolinea come manchi "una parola chiara", i volontari che arrivano da ogni dove non trovano nessuno a cui rivolgersi, la città appare abbandonata a se stessa. Gli abitanti del rione Castello s.Pietro si trasferiscono in massa a piazza XIII vittime, ricoverati sotto "tende di fortuna".
Il terremoto mette a nudo le piaghe del centro storico, rende visibili lesioni alle pareti vecchie di "alcuni anni", che all'improvviso fanno paura.
La notte del 20 le famiglie di Castello San Pietro occupano numerose case a Fondo Patti, a Pallavicino: dove gli appartamenti erano pronti da anni, ma non assegnati. Altri disperati si rifugiano nei vagoni che le Ferrovie hanno messo a disposizione della Prefettura alla stazione Lolli, a Brancaccio, a Tommaso Natale.
Messa da parte la paura, l'incalzare di drammatiche notizie crea un'ondata di solidarietà anche a Palermo. I giornali organizzano colonne di soccorsi, è Mario Farinella a guidare i tre camion riempiti da L'Ora con pane, latte, omogeneizzati e coperte. E' una gara di generosità, tutti vogliono dare qualcosa e tanto più avvilente risulta l'andare a sbattere contro una colpevole disorganizzazione.
Come sempre, la città mostra due volti. Ci sono il caos e la paura ma, come scrive Mario Genco su L'Ora del 17, "questa incredibile Palermo, che si sbriciola alle prime piogge e si schianta alle brezze, ha resistito bravamente. Neanche una chiamata per i vigili del fuoco. Cornicioni e vecchi palazzi sono rimasti, per fortuna, al loro posto".


da L'identità di Clio del 19 settembre 2016







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QUATTRO VEDUTE DI MONREALE

I Poeti del Gufo Trombettiere - Accademia Siculo Normanna 1981

Dare inizio ad una attività editoriale rovolta anche alla poesia non era nell'intento dell'Accademia Siculo-Normanna "Giuseppe Sciortino". Anche se in questi sette anni di attività culturale caratterizzata da convegni, mostre, tavole rotonde, il problema del linguaggi poetico, era stato avvertito con crescente interesse. Così i poeti del gufo trombettiere  (di misogallica memoria) curati da Salvatore Orilia, aprono con questo primo mini-book di Aldo Gerbino uno spazio, che se graficamente è piccolo, idealmente vuole estendersi a sempre maggiori fruizioni.
Pino Giacopelli







MARALDO

Maraldo è eccezionale nella sua tunica
di meccanico delle fontane
s'immerge con dolcezza
nei sotterranei colmi d'acqua
e raccoglie fossili di carassi, 
amuleti di donne, pettini d'avorio.
Quando nuota
bigi diventano i suoi occhi
e chiara è la cicatrice 
che porta al braccio metallico.
Proprio come un fanciullo discolo 
sciorina al vento i suoi pensieri 
appesi agli alti toriioni
mentre scava tra notizie e molecole 
lividi anfratti suoni serpiginosi 
nel suo corpo 
infissi come aguzze punte di vetro.
Guarda Maraldo l'arco tenebroso 
della grande chiesa 
come una cinghia di dolore 
un sole diverso
posa tra i suoi spiragli di pietra.
Ne estrae colori smussati 
come certe tempere d'anni 
e sapori di carte e pelle macerata
e scorge il piede/calzare rapido della ninfa minuta che sussurra
questo suo nome
Maraldo!
Maraldo grida tutto impennandosi
tra i merli e le pietre di genziana
e vipere giganti
sotto la faretra di pietra
del castello ciondolante,
Maraldo ancòra è grido di minuta ninfa serpeggiante di monete d'oro
e chiocce impinguate 
e sterco di cavalli
e turbinosi ricami di frumenti.
Quale fede verso le cose e l'uomo 
quale uomo o ninfa
può ricompensarti Maraldo 
dell'amico che t'uccidono sulla via
sotto gli occhi cerosi dipinti col sangue
e squame di carassi
da te pescati, Maraldo
del Crocifisso instancabile
al vento tiepido
e dello stesso uomo dalla calzamaglia
dagli occhi azzurri come le fontane
che tu ripari
ricercandone il collegamento 
col mare d'isola.
Ora i suoi occhi sono due castagni,
Maraldo
uomo, fanciullo, donna meccanico
di fontane e carassi
e lontano dalle tende dei monti
tra i fuochi dei coleotteri,
raccogliendo solo gatti
dagli occhi di malachite
e giostre di fumo tenue
come se tutta la città e la piazza e l'uomo riverso
ne accompaganssero questo nome semplice di libero e immortale falcone.



Incisione di Pino Anselmo (all'interno del libricino)